mercoledì 19 marzo 2025
Guzzo (Università di Pisa): la Scrittura parte dalla multiforme, incoerente realtà della vita per offrire le coordinate di una giustizia capace di convertire le spade in aratri. Un diritto di pace
«Il giudizio di Salomone», opera di Jusepe de Ribera (1591–1652) dipinto tra il 1609 e il 1610

«Il giudizio di Salomone», opera di Jusepe de Ribera (1591–1652) dipinto tra il 1609 e il 1610 - .

COMMENTA E CONDIVIDI

La Bibbia è un libro – o meglio, un libro di libri – che dice qualcosa sul diritto, cioè sulla regolamentazione della vita sociale. Ed è fin troppo evidente: la storia del popolo dell’Alleanza – come la storia di ogni popolo – può essere interpretata nei termini di un’esperienza giuridica, vale a dire di un diritto vissuto, sperimentato, trasmesso dalle donne e dagli uomini, in tempi e in luoghi tra i più lontani e diversi. La Bibbia può aiutare a comprendere il funzionamento del diritto meglio di uno dei tradizionali manuali in circolazione per gli studi giuridici. Il motivo è semplice: i manuali parlano solo del diritto senza toccare la vita, la Bibbia parla del diritto attraverso la vita.

Certo, ciascuna e ciascuno di noi, ieri come oggi, può strumentalizzare i diversi libri, capitoli e versetti della Bibbia, piegandoli alle proprie sensibilità intellettuali e culturali: ci si ritrova facilmente il Dio che è, al contempo, legislatore supremo e giudice; un Dio che alle volte punisce, e pure in maniera spietata e vendicativa, alle volte usa misericordia. Violenza e amore, castigo e compassione, guerra e pace, in questo contesto persino la concezione retributiva della pena («occhio per occhio, dente per dente») convive una visione riparativa del danno inflitto. Insomma, molteplici teorie sul diritto e sulla giustizia trovano senza troppe difficoltà una fonte di ispirazione a partire dal dato biblico.

Può sembrare che la babele del linguaggio corrisponda alla babele del diritto; o meglio, dei diritti. In realtà, in questa contraddizione c’è tutta l’umanità: si può partire dalle pagine sacre per comparare diversi modelli di giustizia, valutare i pregi e i difetti, e così esercitarsi al pluralismo dei valori e delle idee. Non è questa, forse, una vera e propria palestra di democrazia?

Eppure, tra le tante visioni tra di loro in competizione, una può essere considerata comune: è la visione antropologica che si dà sul diritto e sulla giustizia. Nella Bibbia le regole, in quanto tali, sono funzionali alla vita sociale. Una società non può essere data senza regole e le regole non si possono dare senza una società. Questa lettura (già nota ai romani, e che oggi definiremmo “istituzionalistica”) riconduce le norme ad un contesto di giustificazione “relazionale”. Con parole semplici: le norme nascono dall’incontro con l’Altro e con l’altro; dalla proiezione dell’Ulteriorità assoluta nell’alterità interpersonale. È facile cogliere la natura del diritto quale incontro, dialogo, momento di un necessario decentramento da sé stessi. Il diritto non può essere espressione di egoismi e di individualismi. Per questo motivo, la memoria degli orrori nazisti e fascisti conduce ad interpretare la legge in senso egualitario, nel riconoscimento dei diritti a tutte e a tutti, senza discriminazioni, alla luce della dignità della persona umana. La tragedia della Seconda guerra mondiale ha ricordato che c’è una legge naturale che iscrive la stessa volontà del Dio biblico in un ordine di giustizia.

I diritti umani nascono da questa consapevolezza ed esprimono la dimensione relazionale delle donne e degli uomini. Il diritto si definisce a partire da tale relazione e, in una virtuosa circolarità, provoca, custodisce, cura, ricompone la relazione.

Pur se interpretato come un prodotto della volontà di Dio, il diritto biblico, in fin dei conti, rimane esperienza per davvero “umana” nel suo presentarsi contraddittoria e frammentata. Non deve sorprendere ciò: la creatura partecipa attivamente all’opera del Creatore, anche per quanto riguarda il processo di produzione della norma. Ne consegue che le donne e gli uomini non sono tanto destinatari di una regola che proviene dall’alto, quanto soggetti che producono diritto, perché a immagine e somiglianza del Legislatore. Probabilmente, nei nostri ordinamenti confessionali – come il diritto canonico - potremmo pensare di iniziare a fare a meno della nozione di diritto divino, che blocca i processi di riforma delle istituzioni.

Più che una volontà immutabile, il diritto biblico appare in continua evoluzione. Il salto da una giustizia che punisce ad una giustizia che trasforma, persino in termini escatologici, è facilmente rintracciabile nel passaggio dal Primo al Secondo Testamento, in una linea di continuità giuridica mantenuta: Gesù non ha intenzione di modificare la legge ebraica, ma offre ad essa una nuova interpretazione alla luce della legge della carità. Persino la parola “perdono” acquisisce un significato inedito, che nella relazionalità giuridica ha a che fare con la misericordia, con l’amore, con la fiducia, con la speranza, con il futuro. Questi ultimi sono i lemmi di un vocabolario giuridico troppo spesso dimenticato, anche nelle nostre aule di Giurisprudenza, a favore di una cultura del diritto definita “tecnica”, che spacchetta in quattro i commi delle leggi, ma si dimentica delle esigenze che maturano nei contesti esistenziali e sociali. La Bibbia, al contrario, parte dalla multiforme e incoerente realtà della vita umana per presentarci le coordinate di una giustizia trasformativa, capace di convertire le spade in aratri e le lance in falci (Isaia 2,4). Un diritto di pace.

docente di Diritto e religione nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa


© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI