INVIATO A PALERMO Con la sincerità gentile che discende da millenni di ricerca filosofica, la monaca induista Hamsananda Giri è riuscita a fare sintesi ammettendo che sussistono delle importanti divergenze - «per noi la sofferenza non è mai collegabile a una punizione o al peccato», ha detto, riferendosi alle ricostruzioni storico-esegetiche dei rappresentanti delle religioni ebraica e islamica che l’avevano preceduta - ma anche immensi spazi di condivisione: «per Gandhi, la cura è amore nel senso paolino e il pensiero gandhiano aiuta ad approfondire il concetto di non violenza, andando oltre la concezione negativa, arrivando a tolleranza, compassione, rispetto dell’altro che arricchiscono il concetto di cura». Nonché spazi di collaborazione: «la medicina moderna ha molti meriti ma il suo limite è la cieca fede nei propri strumenti». Ieri, il convegno Cei sulla pastorale della salute, che si concluderà oggi a Pa- lermo, ha affrontato un tema impervio - 'Sofferenza, malattia e morte' in cristianesimo, ebraismo, islam, buddismo e induismo - realizzando un clima di
agape inedito per un appuntamento pubblico e soprattutto in giorni come questi, caratterizzati da una tensione interetnica che l’imam di Trento, Aboulkheir Breigheche, ha esorcizzato così: «in tutti noi vi è la convinzione profonda che la salvezza si raggiunga solo attraverso la propria religione, ma la cosa più importante è non disprezzare il credo altrui e anche il Corano vieta di costringere gli altri a credere, perché la base di tutte le religioni è la libertà». Anche dove le domande e le risposte tendono a coincidere non bisogna fermarsi alle apparenze: «vediamo i bambini morire e quelle ci appaiono delle tragedie sproporzionate. Nel cercare di comprendere la sofferenza vi è una comunanza con i cristiani, nel senso che si interpretano le sofferenze di questo mondo come uno sconto rispetto ai beni che riceveremo nel mondo futuro » ha detto il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, «tuttavia, per l’ebraismo questa è solo una delle spiegazioni, non è la spiegazione, poiché non abbiamo una teologia codificata e unificata su come gestire e interpretare la sofferenza». Fili sottili legano le religioni del Libro - «Anche noi come i cristiani cerchiamo di imitare Dio, che ha vestito gli ignudi, visitato gli ammalati, nutrito gli affamati…» -, si nascondono - «il mondo è frutto di una rottura primordiale e l’impegno dell’uomo è trarne il bene, è la
tikkun, la correzione; ma il nostro dovere non è capire perché, bensì cosa fare»- e si interrompono: «la sofferenza può arrivare come punizione, è uno schema frequente che trova sostegno in innumerevoli passi delle antiche scritture, e chi è più vicino a Dio ha responsabilità più grandi e meno perdonabili sono i suoi errori» - mentre altri sembrano collegare ebraismo ed islam: «molte malattie sono dovute a nostri comportamenti, dobbiamo ricordarci che siamo in viaggio e che questa vita è il periodo della prova: alla fine, avremo un premio o un castigo», come ha spiegato l’imam di Trento Aboulkheir Breigheche. Le sue parole sull’accettazione serena della malattia - «ma curarsi è un dovere religioso!» - e soprattutto quelle sull’accompagnamento spirituale del malato - «qualche volta si usa il bisturi ma anche la lettura del Corano, con meditazione e profonda spiritualità, è una cura» - indicano la possibilità di coniugare dialogo interreligioso e pastorale della salute. Una riflessione è già in corso con le tradizioni buddiste e induiste. Roberto Coslovi, dell’Unione buddista italiana di Roma, ha affrontato direttamente quest’argomento spiegando che l’operatore sanitario che si relaziona a pazienti di differente fede religiosa «deve aver presente la visione unitaria del corpo e della mente del malato e cogliere l’occasione della malattia per far riflettere la persona sulla sua condizione, affinché il malato sia capace di accettare la malattia». La riflessione di Coslovi, anche lui medico come i relatori che lo avevano preceduto, si è saldata con quella di Hamsananda Giri, vicepresidente dell’unione induista italiana e monaca del monastero induista di Altare (Savona), la quale ha spiegato che «tutte le filosofie indiane hanno un fine soteriologico e trovano la loro ragion d’essere nel liberare l’uomo dal dolore, perché l’esperienza del mondo genera sofferenza ma questo non conduce a una filosofia pessimista: la sofferenza universale ha un intrinseco valore positivo e stimolante e il pessimismo viene dal non trovare una via d’uscita ». E come testimone ha citato il teologo luterano Bonhoeffer…
© RIPRODUZIONE RISERVATA Il tavolo dei relatori al Convegno Cei sulla pastorale della salute a Palermo
(Petyx)