La città vecchia di Gerusalemme vista del Monte degli ulivi (foto Ansa)
Si sente odore di pane fresco nella viuzza a due passi dalla porta di Jaffa, nella città vecchia di Gerusalemme. La strada porta il nome del palazzo che la chiude. È la via del patriarcato latino, dove si trova la “casa-madre” dei cattolici legati a Roma non solo di Israele e Palestina ma anche di Giordania e Cipro. Oltre il cancello d’ingresso alcune targhe ricordano i Papi che che sono tornati «là dove Pietro è partito»: in Terra Santa. «Non ci può essere pace nel mondo se il Mediterraneo non è in pace», spiega l’arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del patriarcato latino di Gerusalemme, che parteciperà all’Incontro di riflessione e spiritualità “Mediterraneo, frontiera di pace” promosso dalla Cei. L’appuntamento che si terrà a Bari dal 19 al 23 febbraio 2020 e che sarà concluso da papa Francesco farà arrivare in Puglia i pastori di tre continenti (Europa, Asia e Africa) in rappresentanza dei Paesi affacciati sul grande mare. E a guidare la delegazione della Conferenza dei vescovi latini nelle regioni arabe sarà proprio Pizzaballa che ne è presidente. Un organismo formato dai pastori del patriarcato di Gerusalemme, delle diocesi di Baghdad (Iraq), Gibuti e Mogadiscio (Somalia) e dei vicariati apostolici di Beirut (Libano), Alessandria d’Egitto, Aleppo (Siria), Arabia settentrionale e meridionale, Oman e Yemen.
Dalle finestre del palazzo che in Occidente chiameremmo episcopio si scorgono i volti dei passanti. Bastano pochi dettagli per capire a quale delle tre religioni monoteiste appartengono: una croce al collo rimanda alle radici cristiane; la kippah sulla testa attesta il sangue ebraico; il libro del Corano sottobraccio evoca l’islam. Gli uni accanto agli altri – con fatica – nella Città Santa per le tre fedi. «Questa purtroppo non è una terra di pace. E il futuro di Gerusalemme è il tema dei temi, il problema dei problemi quando si parla di pace», sostiene l’arcivescovo 54enne, bergamasco d’origine e frate minore francescano con un passato da custode di Terra Santa per oltre undici anni, che dal 2006 guida questa diocesi. A complicare la situazione anche l’incerto esito delle elezioni in Israele.
Eccellenza, quale ruolo per il Mediterraneo sulla scena planetaria?
È innegabile che lungo le rive del nostro mare ci giochino equilibri politici, economici, sociali che hanno un’eco mondiale. E si intreccino i rapporti fra Nord e Sud del pianeta, ma anche fra Occidente e Oriente. Non solo. Dal punto di vista religioso quest’area è determinante per le sorti dell’umanità. Di fatto non si può prescindere dal sacro se si vuole costruire la pace.
Come valutare l’Incontro organizzato dalla Cei che intende spronare le Chiese a mobilitarsi per la riconciliazione fra i popoli?
È una proposta più che buona. Tra l’altro si rifà a un’intuizione del sindaco “santo” di Firenze, Giorgio La Pira, che immaginava il Mediterraneo come un grande lago di Tiberiade in cui le Chiese, seppur con dinamiche diverse, insistono su un contesto culturale simile. In questi anni l’intera regione è tornata al centro dell’attenzione, come mostrano le guerre in Siria, il fenomeno migratorio, le questioni energetiche, il dialogo fra le fedi. Sono temi che toccano tutte le Chiese: Chiese che ricevono e Chiese che donano.
La Pira ha richiamato più volte l’origine mediterranea delle tre religioni abramitiche: ebraismo, cristianesimo e islam. Come coltivare una cultura dell’incontro?
Il dialogo interreligioso passa dal Mediterraneo e in particolare dal Medio Oriente. Credo che sia una sorta di disposizione divina. Considero il dialogo un cantiere aperto. Molto è cambiato nel rapporto fra le comunità religiose e tra i leader. Ma all’interno di ciascuna fede ci sono talvolta approcci e stili differenti. Ecco perché mi piace affermare che il cammino progredisce ma è sempre all’inizio.
In Terra Santa che cosa segna il barometro del dialogo fra cristiani e mondo ebraico?
Sul versante religioso, i passi in avanti sono evidenti. Ma restano difficoltà sul piano politico. I negoziati fra Santa Sede e Israele non sono ancora terminati. Inoltre sappiamo che fra Stato d’Israele e popolo ebraico esiste un legame peculiare. Su questo resta molto da fare.
E con l’islam?
Direi che ci sono molti islam con atteggiamenti diversificati. In generale l’islam sta attraversando al suo interno un intenso travaglio. Esiste un’anima dialogante con cui è possibile compiere un percorso ricco e, per certi versi, avanzato. Lo testimonia il Documento sulla fratellanza umana firmato dal Papa e dal grande imam di Al-Azhar ad Abu Dhabi lo scorso febbraio. Tuttavia sperimentiamo anche la presenza di un’ala radicale. Occorre non demordere.
Nella traccia Cei di preparazione all’evento di Bari si fa riferimento all’incontro di san Francesco con il sultano d’Egitto avvenuto otto secoli fa. Un invito a superare le diffidenze?
È sintomatico che dopo 800 anni resti questa l’immagine più forte a cui possiamo richiamarci per parlare di dialogo fra Chiesa cattolica e islam. Dopo Abu Dhabi serve affrontare seriamente questo nodo. Non possiamo non essere in relazione con due miliardi di persone.
Lo status quo di Gerusalemme va preservato. Ma non è la soluzione...
È uno stato di tregua, non di pace. Serve impegnarci per avere relazioni riconciliate all’interno delle quali ognuno resta se stesso ma non vede nell’altro una minaccia alla sua storia e alla sua presenza.
Il Mediterraneo è segnato da troppe tensioni.
Vale soprattutto per il Medio Oriente, ma non possiamo dimenticare quanto accade in Libia, Egitto o Turchia. In Terra Santa viviamo un continuo conflitto che non sempre è militare ma certamente è politico. Non c’è pace fra israeliani e palestinesi. E, a torto o a ragione, tutto ciò viene considerato all’origine di molti altri contrasti. Come nel resto del Mediterraneo, anche qui dovremmo convivere a lungo con questi dissidi.
La comunità internazionale ha dimenticato quest’area?
Ritengo che la comunità internazionale sia un po’ distratta rispetto quanto accade intorno al Mediterraneo. E, quando guarda alla regione, lo fa in chiave di difesa, come attesta il caso migranti, o di tutela degli interessi economici. Manca una visione complessiva.
Diceva Paolo VI che «lo sviluppo è il nuovo nome della pace». Come declinare oggi questa frase?
Vivo in Medio Oriente da trent’anni. Ci sono Paesi ricchissimi di risorse, ma marcati dalla povertà. È anche la sperequazione che dà forza al radicalismo islamico. La mancanza di sviluppo economico e anche culturale tiene soggiogate intere popolazioni. Finché non avremo un progresso che garantisca pari dignità a ogni uomo e donna, sarà quasi impossibile giungere a una riconciliazione serena.
Come favorire la libertà religiosa in contesti complessi?
È uno degli argomenti che riguarda il domani del Medio Oriente. Non ci può essere sviluppo economico senza sviluppo sociale. E, in questa società, l’elemento religioso è costituito dell’identità non solo personale ma anche collettiva.
Questione migranti. Il Medio Oriente è terra di arrivi e partenze.
Le migrazioni non sono solo un fenomeno attuale. E qui tocchiamo con mano sia l’emigrazione, sia l’immigrazione. Cito la Giordania, Paese che fa parte della mia diocesi e che ha accolto tre milioni di profughi provenienti da Siria e Iraq su una popolazione di sette milioni di abitanti.
I cristiani lasciano la Terra Santa. Oggi sono in Israele 130 mila; a Gerusalemme 8mila; in Palestina 45mila. E i cattolici sono meno della metà.
I numeri sono talmente piccoli che se ci fosse una fuga generalizzata saremmo già spariti. La presenza cristiana in Medio Oriente non è in via d’estinzione. Registriamo comunque espatri dovuti soprattutto a fattori economici. Però non c’è da drammatizzare. I cristiani ci sono e resteranno nella terra di Cristo.