Proseguiamo nella serie di interviste a commento dell’enciclica Caritas in veritate. Dopo il teologo don Mario Toso, l’economista Stefano Zamagni, il segretario della Cisl Raffele Bonanni, il cardinale Renato Raffaele Martino, il rettore Lorenzo Ornaghi e l’ex presidente del Fmi Michel Camdessus, è la volta di Umberto Paolucci presidente di Microsoft Italia. «L’errore più grossolano sarebbe pensare che sia "una cosa da preti", qualcosa di trascendente, che non tocca direttamente le aziende. Al contrario: c’è molto di immanente in questa enciclica e nelle aziende si farebbe bene a organizzare seminari e confronti sulla
Caritas in veritate. In Microsoft Italia abbiamo deciso di farlo e da settembre se ne discuterà negli incontri del management e del personale». Umberto Paolucci, quasi 65 anni, è un manager di lungo corso. Fondatore della filiale italiana di Microsoft ha poi ricoperto incarichi da dirigente anche in altre società, senza mai abbandonare la "casa madre". «Nell’enciclica», dice, «ho ritrovato sistemate in maniera organica tante esperienze che ho vissuto sul mercato, nelle imprese, tanti spunti fondamentali sui quali mi era capitato di fermarmi a riflettere o che abbiamo discusso tante volte con le persone con cui lavoro. Lo trovo un testo fondamentale che qualsiasi manager, al di là del proprio credo religioso, dovrebbe leggere e meditare».
L’enciclica si rivolge proprio direttamente a chi ricopre ruoli dirigenziali nelle imprese, sollecita un cambiamento d’atteggiamento. Suggerisce un impegno sul lungo periodo, chiede di allargare lo sguardo a ciò che sta intorno all’azienda, al di là del singolo business.La questione centrale è come l’impresa si inserisce nella società, quale apporto complessivo può dare alla comunità. A prima vista sembrerebbe qualcosa di marginale rispetto al "core business", alla produzione specifica di ogni azienda, al fare profitto. In realtà, è un aspetto connaturato all’attività dell’impresa e, alla fine, il come si cerca di fare profitto incide direttamente anche sul quanto, sul successo, sui tempi di vita sul mercato di un gruppo imprenditoriale. Su questi aspetti ragioniamo da tempo in Microsoft e abbiamo sempre cercato di improntare la nostra strategia aziendale non alla massimizzazione del profitto immediato, quanto al contributo complessivo che l’azienda può fornire agli stakeholder (i portatori d’interesse, ndr) sia interni sia esterni. Noi pensiamo – e in questo credo di ritrovare delle assonanze nel testo dell’enciclica – a un nuovo "capitalismo creativo" che non ha solo fatturato e utile come metri di giudizio della propria attività ma il plusvalore sociale che si dà alle persone e alla comunità. Pensiamo ad esempio a un farmaco: certo si può misurare quanto vende, quanto ha portato in cassa. Però conta soprattutto quante vite umane ha salvato, quante persone ha fatto stare meglio e questo deve entrare nella logica di bilancio.
Di «responsabilità sociale delle imprese» in effetti si parla da qualche tempo. Per molte società, però, sembra ridursi a qualche attività benefica, tutt’al più a progetti collaterali e staccati dall’attività aziendale vera e propria.Un errore. La beneficenza da parte delle aziende sembra fatta per "farsi perdonare" qualcosa. E invece l’apporto sociale che le imprese devono saper fornire alle comunità dev’essere qualcosa che nasce anzitutto dagli stessi approcci e ambiti del proprio business. E soprattutto deve coinvolgere le persone che lavorano nell’azienda nella progettazione degli interventi e nella loro attuazione. Faccio qualche esempio delle nostre ultime attività per capirci: il progetto Web sulla sicurezza nella navigazione in internet lo abbiamo sviluppato coinvolgendo oltre 100 dipendenti che sono andati nelle scuole a spiegare ai genitori e agli studenti come viaggiare in Rete in maniera sicura. Ancora, dai corsi di alfabetizzazione sul computer per gli anziani alla creazione dei chioschi informatici nei villaggi africani, tutto viene realizzato dalle nostre persone in collaborazione con diverse ong e governi. E con le associazioni di volontariato teniamo una volta l’anno il "non profit day" per scambiare informazioni e valutazioni, condividere progetti d’intervento.
Nella lettera di Benedetto XVI si parla esplicitamente di una «commistione» da ricercare tra mondo profit e non profit. E soprattutto si suggerisce che il valore della gratuità, del dono, debba entrare nella logica del mercato, nell’attività delle imprese. È possibile e come?Penso che ogni azienda dovrebbe misurare il proprio riconoscimento sociale e interrogarsi sui risultati. Non sul piano dell’immagine ma della quantità e qualità del benessere complessivo che l’impresa ha saputo generare. Riguardo alla commistione tra profit e non profit, nei mesi scorsi proprio confrontandomi con alcune associazioni parlavo di «osmosi necessaria» fra i due mondi, di scambio di persone e competenze: quelle tipiche manageriali, organizzative, economiche da parte nostra, quelle soprattutto motivazionali da parte loro. Dico sempre infatti che l’obiettivo cui tendere è avere dei "volontari" come dipendenti. Perché col mero pagamento dello stipendio al massimo mi "compro" la pancia del dipendente. E invece, se voglio davvero lavorare bene, devo poter contare sul coinvolgimento della sua mente e del suo cuore, devo far sì che creda pienamente in ciò che fa. Come un volontario, appunto, capace di "donare" quel qualcosa in più che va oltre quanto riceve.
Eppure sulle multinazionali, Microsoft compresa, gravano critiche, giudizi negativi. Le stesse tecnologie di cui voi vi occupate possono essere un’arma a doppio taglio e un potere che può essere condiviso o utilizzato per ampliare le differenze.La multinazionale è uno strumento, una forma d’impresa. Certo, può fare molto male perché agisce su più comunità. Ma al contempo può essere un grande volano di sviluppo. Dipende sempre, diciamo così, da come la si conduce. Anche senza considerare tutte le attività della fondazione Bill Gates – che solo quest’anno investirà 3,8 miliardi di dollari in attività sociali nel mondo – c’è da considerare che per ogni euro di fatturato di Microsoft ne vengono generati altri 10 dalle imprese indipendenti che operano in varia maniera con i nostri prodotti. Abbiamo rapporti con 700mila aziende nel mondo e un numero enorme di persone. In molti Paesi siamo al primo posto nelle classifiche "
best place to work" (miglior posto in cui lavorare,
ndr). Operiamo costantemente per il trasferimento di tecnologia verso i Paesi meno sviluppati. Insomma, cerchiamo di interpretare il nostro ruolo guardando ben oltre il profitto.
Ma se dovesse riassumere in poche parole il ruolo di un manager?Aiutare le persone ad essere felici. La responsabilità di un manager è essenzialmente questa, da esercitare tanto all’interno dell’azienda con particolare riguardo ai lavoratori, quanto verso l’esterno tenendo sempre in considerazione l’apporto che la propria attività può fornire alla comunità.