La novità «è nel rigore, concettuale e politico, con cui guarda dentro i problemi del nostro tempo e nella forza con cui chiede agli uomini concretezza, incitandoli al risveglio nel pensiero e nell’azione». La continuità, rispetto al magistero sociale dei Papi, va colta invece nella sua carica profetica, «o, se vogliamo dirla in modo laico, nella capacità di essere correttamente previsionale, nel decrittare le tendenze mentre si ancora annunciano». Fin qui il giudizio del rettore dell’Università Cattolica, ma basta discorrere per qualche minuto della
Caritas in veritate per capire che al politologo Lorenzo Ornaghi questa enciclica piace, anche perché compie una profonda rivisitazione del ruolo dello Stato e dei suoi rapporti con l’economia e con il sistema globale.
Qual è il tratto originale della prima enciclica sociale di Ratzinger?È un’enciclica rigorosa ed esigente nel fornire indicazioni e nel chiedere comportamenti coerenti, perché riflette la consapevolezza che la questione sociale ha assunto ormai una scala planetaria. Rispetto alla
Populorum progressio, ad esempio, Ratzinger misura le trasformazioni in atto con lucidità e realismo, guarda "dentro" la globalizzazione e ne valuta tutte le ricadute culturali. Mentre il mondo di Paolo VI era diviso tra paesi avanzati e non, oggi la dottrina sociale scopre che le fragilità, spesso di ordine morale, colpiscono anche i primi. Questa enciclica fa lo sforzo di guardare oltre la crisi con un rigore unitario, a partire dalla consapevolezza che «la questione sociale è questione antropologica». Il Papa è fortemente convinto che la concezione dell’uomo sia decisiva per affrontare la crisi sociale e che dall’azione degli uomini e delle loro associazioni possa derivare una risposta positiva.
Per questo propone anche delle strategie nuove, come fa con il sindacato? L’analisi dei «nuovi problemi» del lavoro che conduce a ipotizzare «innovative esperienze sindacali» è di grande interesse, soprattutto il passo che incita le organizzazioni a volgere lo sguardo verso coloro che non sono rappresentati. È sicuramente un conferimento di responsabilità ai sindacati; forse registra addirittura il possibile avvio di un nuovo ciclo storico, quello di una rappresentanza diversa.
Senza la carestia, i subprime, la grande crisi, questa lettera sarebbe stata scritta così?La recessione del mondo globale ha accelerato un percorso che il magistero sociale stava compiendo. La
Caritas in veritate contiene elementi profetici e un richiamo all’azione – evoca l’urgenza delle riforme, offre idee innovative nei rapporti economici e invita a rivedere quelli tra le istituzioni e la società – che può sembrare inconsueto, ma che rispecchia la natura del documento: un testo scritto da un pontefice consapevole delle contraddizioni che si moltiplicano. In una concezione sistemica delle relazioni sociali, se si sgretola ciò che è storicamente coerente, l’intera comunità rischia di franare.
Il Papa indica come rimedio una «rivalutazione degli Stati». Che cosa ne pensa lo scienziato della politica? A questo passaggio Benedetto XVI arriva partendo dalla consapevolezza che le democrazie stanno vivendo un processo di grande trasformazione, intrecciata a quelle che investono il mercato. Il discusso articolo di Böckenförde (autore di un’analisi critica del capitalismo pubblicata da
Il Regno, ndr) coglieva un nesso che si ritrova anche nell’enciclica, cioè quello tra lo Stato e il mercato capitalistico. Il modificarsi di quel rapporto storico spiega molti cambiamenti, e la "rivalutazione" non è un puro e semplice ritorno all’antico: l’enciclica sfugge alla contrapposizione rigida tra Stato e mercato, visto che nella tradizione della dottrina sociale della Chiesa, a partire dalla
Rerum novarum, più che lo Stato con le sue funzioni ai cattolici interessa lo Stato come creatura storica che dà un’organizzazione alla convivenza umana rispetto al bene comune. Dietro la richiesta di una rivalutazione degli Stati c’è l’indicazione di quale senso dare alla politica rispetto a un buon ordine sociale.
Quindi nessun primato dello Stato?E neanche del mercato. Proprio perché si libera da questa contrapposizione, dalla gabbia di queste categorizzazioni, la dottrina sociale evita che a fasi alterne si affermi il primato dello Stato o dell’economia. Entrambe sono forme che hanno alla radice la riduzione dell’uomo solo a un soggetto che cerca il potere o l’utile. Anche l’analisi di Böckenförde evocava questo rischio.
Quali sono le conseguenze pratiche di queste teorie?La consapevolezza che ciascun Stato che operi da solo, anche in posizione egemonica sul proscenio mondiale, è sempre vulnerabile. E che il sistema globale ha bisogno di maggiore cooperazione tra gli Stati: la Chiesa parla però di una cooperazione non utilitaristica, che non bada al bene dei cooperanti, bensì di tutta la famiglia umana; parla di giustizia distributiva, che preferisce alla giustizia commutativa, su cui si regge abitualmente il mercato. Per capirci, userò un’idea del cardinale Siri, «la comunicazione del benessere»: il benessere non è quello di molti tra tutti, ma quello che viene messo in comune, come in famiglia. Lo Stato e il sistema globale sono chiamati a fare lo stesso.
Perché è tanto difficile tradurre questi principi in economia?Perché deve modificarsi, e sta modificandosi, il nesso weberiano tra Stato e capitalismo. La dottrina sociale della Chiesa afferma principi che stridono con secoli di filosofia e di cultura quotidiana. Stride con quest’impianto il principio della gratuità e del dono, per quanto esista un corposo filone di studi che dimostra la sua importanza nel funzionamento della società. L’enciclica riscopre l’importanza di questa dimensione per la relazione sociale: una persona non è definitivamente tale se non si sente completata da relazioni sociali, una visione meramente utilitaristica non basta a nessuno e chiude la comunicazione con gli altri. Un passaggio fondamentale dell’enciclica è quello che afferma: «La verità, infatti, è "lógos" che crea "diá-logos" e quindi comunicazione e comunione». In questo punto ritroviamo anche la concezione di Ratzinger sulla scienza, alla quale contesta, e non da oggi, l’iperspecializzazione settoriale.
Nel campo scientifico il Papa intravede la nuova minaccia del nostro tempo. Dove nasce l’ideologia del tecnicismo?Deriva da un’idea parziale di progresso, secondo cui il progresso proseguirà all’infinito proprio perché sospinto dalla tecnica. Quest’illusione nasce dalla confusione del progresso con la crescita della tecnica. La seconda radice, intrecciata al relativismo, è l’idea che ciò che è tecnico è neutrale. Questi due fattori hanno ideologizzato e svuotato le nozioni di progresso e tecnica: oggi l’Occidente si trova senza un’idea affidabile di progresso, senza un orizzonte temporale più lungo che non sia quello che gli offre l’efficacia della tecnica di cui dispone in quella fase storica. Un nuovo modello di sviluppo non potrà venire da una scienza sola, ma da un dialogo fra le conoscenze e sul fondamento di un autentico umanesimo.