sabato 24 dicembre 2011
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Il cielo di dicembre è grigio sopra lo specchio calmo del lago. Nes­suno, nella piazzetta di Orta. Un battello trasborda sull’isola San Giu­lio. Come sbarchi, ti meraviglia il si­lenzio in cui sprofondi, un silenzio rotto soltanto dallo sciabordio del­l’acqua, al molo. Ti inoltri per il vi­colo verso il monastero benedetti­no Mater Ecclesiæ, seguita solo dal rumore dei tuoi passi. L’edificio del­l’ex seminario, affidato nel 1973 a sei monache, oggi ne ospita 75, di cui 10 novizie e 2 postulanti. Appe­si al portone gli orari della giornata: dalle lodi mattutine delle 4,50 il tem­po è scandito fra preghiera e lavoro fino a compieta, a sera; poi, si leg­ge, è il 'grande silenzio' della not­te. Un silenzio ancora più grande di questo? ti domandi, tu già un po’ smarrita e quasi assordata da que­sta pace. Anna Maria Cànopi, 80 anni, la Ma­dre superiora, è una donna esile, con due vivi occhi azzurri sul volto magro. È la fondatrice: quando ar­rivò con le prime sorelle, racconta sorridendo, l’edificio era in abban­dono, mancava luce, telefono, per­fino l’acqua bisognava andare a prendere, a un pozzo. Come una fondazione monastica di evi antichi qui, in questo alto Piemonte, a un’o­ra da Milano. Siamo venuti nel silenzio della clausura a parlare di speranza. Ma­dre, quanto delle paure e delle an­sie di fuori arriva fra queste mura? Ho l’impressione che arrivi tutto, perfino ciò che non viene detto. Nel Signore si percepisce ogni cosa, in questo silenzio si sente anche ciò che non è pronunciato. Per iscritto, per e-mail, o di persona, la dome­nica a messa nella basilica di San Giulio o nella settimana, sono mi­gliaia ogni anno le persone che ven­gono a chiedere sostegno per la lo­ro fede, o semplicemente il coraggio di vivere. Questo soprattutto: do­mandano il coraggio di vivere. Tut­ta la vita nostra e la nostra preghie­ra sono date per chi domanda que­sto aiuto, e anche per chi non può o non vuole venire, o non sa neanche di noi; la nostra vita è soprattutto per gli abbandonati, per quelli di cui nessuno si ricorda. Abbiamo una vocazione di materna supplenza a ciò che manca, di fede e di speran­za, agli uomini. In tempi di crisi la pressione di que­sta domanda di speranza si fa più forte? Sì, le difficoltà economiche accre­scono l’insicurezza e lo smarrimen­to. C’è perciò sempre più gente che si affida alla nostra preghiera. Ven­gono anche persone che non cre­dono in Dio, ma ci chiedono ugual­mente: pregate per noi! Come cer­cando nel buio una mano che li so­stenga e li accompagni. La vostra prima preghiera, lei dice, è per gli abbandonati, per gli sco­nosciuti miserabili di cui ignorate anche il nome. Dunque su quest’i­sola apparentemente lontana da­gli uomini voi percepite profonda­mente il dolore che grava sul mon­do. Certo, sentiamo addosso a noi il pe­so del dolore e del male; anzi, ci sen­tiamo noi stesse peccatrici. La vo­cazione claustrale è interamente immersa nel mistero della Croce. Chi viene qui ci dice: Beate voi, che vivete in questa pace! Sì, è vero: Cri­sto è la nostra pace. Ma questa no­stra casa non è affatto estranea al mondo, e la pace di Cristo non è spensieratezza; è la pace delle Bea­titudini, che annunciano: Beato chi soffre... Qui partecipiamo della Cro­ce, che continua nella storia umana, ma Cristo è risorto e ci libera dalla tristezza e dalla morte. Non fanno più fatica gli uomini, og­gi, a mantenere la speranza cri­stiana? In un tempo in cui con la rapida informazione sappiamo ciò che av­viene in tutto il mondo, credo che oggi per molti il rischio sia di sentirsi schiacciati da tante sciagure, care­stie e cataclismi che un tempo i­gnoravamo. Si vive, inoltre, dentro un nichilismo che nega la speran­za. Allora si finisce con il chiedersi: ma è vita, questa? Però, come dice­vo anche stamattina a un’ospite af­franta, io sono certa che non c’è confronto fra le tribolazioni del­l’oggi e la gioia eterna che ci atten­de. Anche la madre che perde un fi­glio deve sapere, nel suo dolore straziante, che quel figlio ora vive in Cristo, e non le è mai stato co­sì vicino, e non le verrà mai più tolto. Risuona, tra le mura del mo­nastero, una campanella squillante. Chiama all’ora Nona. Madre Cànopi si avvia alla cappella dove, oltre la grata, le monache sono una schiera ordina­ta di veli neri, o bianchi, quelli del­le novizie. Cantano, con le loro vo­ci chiare. Quanti anni avranno le ra­gazze che attendono di pronuncia­re i voti? Come si sceglie, a vent’an­ni, una vita dentro a questo silen­zio? Sull’altra sponda, nei bar di Or­ta, le radio e le tv accese combatto­no contro la densa pace del lago. Che qui sull’isola invece si allarga, sovrana. Perché fuori di qui abbiamo così paura del silenzio? Sorride la Cànopi: un giorno sono andata in città, dal dentista, per u­na operazione. Per tutto il giorno in studio lì si tiene accesa la radio – canzoni, battute, parole vuote. Ma non la spegnete mai?, ho doman­dato. No, non la si spegne… Il ru­more consente di evadere. Se si rien­tra in se stessi si deve cambiare: al­lora si preferisce stordirsi. Chi vie­ne al monastero a volte, all’inizio, è spaventato dal silenzio. Poi si abi­tua e lo gusta, e quando va via desi­dera ritornare. Anche la vecchiaia fa molta paura, fuori. Lei ha compiuto 80 anni. Co­me vive la sua età? Si teme la vecchiaia perché non se ne capisce più il valore. Certo, l’uo­mo esteriore invecchia e deperisce, ma nella fede l’uomo interiore cre­sce fino alla statura di Cristo, cioè fino alla vita eterna. Io trovo oggi la mia vita più ricca, più piena che da giovane. Quest’anno sono stata malata due mesi. Non ho avu­to paura, però: la vita vera è Cristo dentro di me. Ci opprime, fuori, una an­goscia del futuro; molti non hanno figli non solo per ragioni economiche, ma per paura del "brutto mondo" in cui li mette­rebbero. Noi non sappiamo come sarà il mondo domani, ma sappiamo che Cristo è il Signore della storia. E sappiamo anche che ogni bambino che viene al mondo porta una nuova speranza. Tutta la vita è nelle mani di Dio; è in questa cer­tezza che sorge il desiderio di dare al mondo nuovi figli. Come porta, come trasmette lei, a chi viene a cercarla, la certezza del­la sua fede? Se si crede nella risurrezione di Cri­sto, questa certezza si legge sui no­stri volti. Ma c’è gente che vorrebbe questa certezza, e non la trova. Bisogna avere allora l’umiltà di do­mandare, e di accettare anche un piccolo lume, perché diventi fiac­cola. Bisogna attaccarsi alla spe­ranza di chi ce l’ha, come fanno quelli che ci dicono: non ho fede, però preghi per me. Quell’implora­zione è già un principio di speran­za. Madre, cos’è il Natale per lei? È un evento che si fa presente, che avviene oggi. La Liturgia ci fa dire: Cristo è nato oggi. Hodie , "oggi", cantiamo in latino il giorno di Na­tale. E per questa certezza a Natale siamo liete, come quando in una ca­sa nasce un bambino. Nasce davve­ro per noi Gesù, la speranza del mondo.
IL VOLTO CERTO DI UN'OTTANTENNE«Dic nobis Maria, quid vidistis in via? Sepulcrum Christi viventis, et gloriam vi­di resurgentis. Angelicos testes, sudarium et vestes. Surrexit Christus, spes mea; precedet suos in Galileam. Scimus Christum surrexisse a mortuis vere: Tu nobis, victor Rex, miserere». (Raccontaci, Maria, che hai visto sulla via? La tomba del Cristo vivente, la gloria del risorto; e gli angeli suoi testimoni, il sudario e le vesti. Cristo mia speranza è risorto e precede i suoi in Gali­lea. Siamo certi che Cristo è veramente risorto. Tu, Re vittorioso, abbi pietà di noi). Questo canto medioevale è molto caro a madre Anna Maria Cànopi. Lo si canta, nel monastero dell’i­sola di San Giulio come altrove, nel giorno di Pasqua. È una traslazio­ne del Vangelo di Giovanni, capi­tolo 20: Maria Maddalena testimone della risurrezione. Ed è la radice stessa della speranza di questa monaca benedettina, da oltre cinquant’anni in clausura. «Surrexit Christus, spes mea» , ne ripete le parole, «Cri­sto, la mia speranza, è risorto. E tutto il resto in questa certezza non mi sgomenta. L’ho sperimentato lungo tutta la mia vita: se Cristo è risorto, allora cambia tutto, anche nelle situazioni più tragiche. Cambiano le per­sone: io posso testimoniare che ne ho viste cambiare tante, nel cuore». «Perché – continua madre Cànopi – quell’incontro fra Maddalena e Cristo è il momento più folgorante della storia». («Donna, perché piangi? Chi cerchi?», chiede lo Sconosciuto alla donna in lacrime davanti al sepolcro vuoto. Lei, dapprima, crede che quello sia il giardinie­re: se l’hai portato via tu, implora, dimmi dove l’hai messo. Poi lo Sconosciuto pro­nuncia il suo nome, «Maria!», e lei allora finalmente lo riconosce). Ecco, qui sta la prima fonte di spe­ranza cui questa monaca bene­dettina attinge da tutta la vita. Quell’istante che illumina la storia, in cui Cristo risorto si rivela a una donna, «a una donna per prima», sottolinea la Cànopi: «Per mezzo di una donna è nato, per mezzo di una don­na ne viene annunciata la risurrezione. Questo ha un significato forte: la donna ha una particolare missione: è la culla della vita fisica e anche spirituale. Cristo le do­manda: «Perché piangi?». Maddalena piange davanti alla morte, perché alle donne, coloro in cui la vita pren­de forma, la morte è particolarmente intollerabile. Ma Gesù le dice che non c’è più da piangere, perché la vi­ta è risorta per sempre». «Surrexit Christus, spes mea». La certezza sul volto di questa monaca ottantenne è luminosa. Come se per la vita intera abbia meditato sull’istante di quell’incro­ciarsi di sguardi, davanti a una pietra di sepolcro roto­lata (come se per tutta la vita abbia desiderato essere lei, lì, a cercarlo, a parlargli come a uno sconosciuto e infine a riconoscerlo, e a gettarsi ai suoi piedi).
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