Neppure due ore dopo, all’Angelus, il Papa ritornò sul bisogno che tutti abbiamo di «sentire misericordia», questa parola che «cambia tutto», anzi «il meglio che noi possiamo sentire», perché «cambia il mondo», e ne basta «un po’» a renderlo «meno freddo e più giusto». Per questo, aggiunse, «abbiamo bisogno di capire bene questa misericordia di Dio, questo Padre misericordioso che ha tanta pazienza». E per capirlo basta avere un cuore aperto all’amore: «È venuta da me una donna anziana, umile, molto umile, ultraottantenne – disse a quell’Angelus, raccontando un aneddoto della sua vita del 1992 – Io l’ho guardata e le ho detto: "Nonna – perché da noi si dice così agli anziani: nonna – lei vuole confessarsi?". "Sì", mi ha detto. "Ma se lei non ha peccato …". E lei mi ha detto: "Tutti abbiamo peccati …". "Ma forse il Signore non li perdona …". "Il Signore perdona tutto", mi ha detto: sicura. "Ma come lo sa, lei, signora?". "Se il Signore non perdonasse tutto, il mondo non esisterebbe". Io ho sentito una voglia di domandarle: "Mi dica, signora, lei ha studiato alla Gregoriana?", perché quella è la sapienza che dà lo Spirito Santo: la sapienza interiore verso la misericordia di Dio». Già in quella tiepida domenica del 17 marzo, ancora a due giorni dalla Messa "ufficiale" d’inizio pontificato del martedì successivo, nell’orizzonte del suo magistero era chiarissimo il posto assegnato al tema della misericordia. E se mai qualche dubbio, a qualcuno, fosse rimasto, questo sarebbe stato spazzato via il giorno successivo, con la presentazione del suo stemma pontificio, dominato dalla scritta "Miserando atque eligendo", espressione di San Beda riferito alla vocazione di San Matteo ("Con sentimento d’amore lo scelse"). Un motto che «ho sempre sentito come molto vero per me», avrebbe confidato nel settembre successivo nell’intervista al direttore di "La Civiltà cattolica", padre Antonio Spadaro, spiegando come «il gerundio latino miserando mi sembra intraducibile sia in italiano sia in spagnolo. A me piace tradurlo con un altro gerundio che non esiste: misericordando».
C’è, in quel gerundio inesistente, tutta l’idea di quel "lasciarsi rivestire dalla" e di "rivestire di" misericordia che, a ben vedere, è al cuore di questo insegnamento troppo spesso, talvolta anche con sufficienza anche nella stessa Chiesa, è stato bollato come facile "perdonismo", quasi una versione cattolica del romanesco volemose bene. Quando invece è tutto il contrario: è il richiamo esigente, rigoroso, a una conversione continua, costante, pervicace, quasi, nella certezza che, se Dio mai si stanca di perdonarci, neppure noi dobbiamo mai sentirci stanchi. È, questo, l’indispensabile abito che ogni credente è chiamato a indossare in quella prospettiva di Chiesa "in uscita" che giustifica lo stesso essere Chiesa – che, proprio come insegna papa Bergoglio, «o è in uscita o non è». L’abito che deve necessariamente rivestire quei tre verbi – camminare, edificare, confessare – che nella messa pro ecclesia celebrata con i cardinali all’indomani della sua elezione, costituiscono i «tre movimenti» che consentono alla Chiesa di andare avanti, rendendo manifesta una fede che, per essere viva, per riuscire a entrare nelle periferie dell’uomo, non ha bisogno di anteporre al camminare, edificare, confessare il rigore della dottrina, né di farsene scudo, ma capace – anzi pronta – a esporsi al rischio dell’amore sull’esempio di chi, quell’amore, ci ha mostrato all’infinito, arrivando a donarci il figlio per salvarci.
Di questa misericordia, che da quella domenica di due anni fa il Papa ha evocato centinaia di volte, l’Evangelii gaudium, più che una sintesi, è il manifesto. «La comunità evangelizzatrice – scrive Francesco al punto 24 – sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore, e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva». Un imperativo, non un invito, che trova ragione nell’essenza stessa della fede, del volersi dire cristiani. Che deve segnare il comportamento, l’attitudine, di tutti e di ciascuno, a iniziare dai vescovi e dai preti «ai quali ricordo – scrive – che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile. Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà». È da questo spirito che, un anno fa, nacque l’idea della "24 ore per il Signore", inedito invito a sperimentare la misericordia accolto dai credenti con un entusiasmo su cui nessuno, il giorno prima, avrebbe scommesso probabilmente neppure un centesimo. Ed è in questo spirito che, ieri, ha annunciato il Giubileo della misericordia, che dal prossimo 8 dicembre scandirà la vita della Chiesa con l’intento – la certezza, forse – che essa, così «troverà la gioia di riscoprirla». Perché, alla fine, è la capacità di manifestare nel concreto la misericordia a dare credibilità all’annuncio. In quanto proprio "da questo vi riconosceranno".