«Io i miei nonni non li ho mai conosciuti. Mio padre era un sopravvissuto al genocidio, della comunità di Van. Aveva perso entrambi i genitori. Era stato preso in custodia da una donna americana che lo aveva messo in un orfanotrofio. Poi lo avevano "adottato" i salesiani, che lo avevano fatto arrivare a Comiano, in provincia di Torino, e gli avevano permesso di studiare. Uno dei tanti orfani armeni che la Chiesa cattolica ha aiutato». L’arcivescovo Raphaël Minassian è dal 2011 ordinario dei cattolici armeni che vivono in tutta l’Europa orientale, incluse Russia e Georgia. Era fra i concelebranti alla Messa di domenica in San Pietro. «Il Papa – dice – ha saputo usare le parole più precise e giuste per difendere la verità storica, la memoria di un popolo, e per richiamare tutti alla riconciliazione. Noi armeni, parlo anche delle reazioni che ho appreso dai fedeli nel mio Paese, siamo commossi e pieni di gratitudine per il coraggio, la sapienza e anche la bontà di Francesco».Per Minassian, come per tantissimi armeni, il Metz Yeghern anche se lontano un secolo è ancora vicinissimo per le tracce che ha lasciato nella sua vicenda familiare. «Anche mia madre aveva perso prima il padre e poi la madre – racconta il presule – ai miei genitori erano state troncate brutalmente le radici. E la loro vita si svolse poi nella diaspora. Del "Grande Male" abbiamo sempre sentito parlare in famiglia. Noi eravamo otto figli – io ero il primogenito, sono nato nel 1946 – e abbiamo passato momenti molto difficili: il lavoro c’era e non c’era, i soldi erano sempre pochi. Quando la tensione saliva per la situazione economica, ricordo il papà e la mamma che concludevano le loro discussioni guardandoci e dicendo: la “Provvidenza non ci ha mai abbandonato, non abbandonerà nemmeno loro”». «Eravamo un po’ come beduini – continua l’arcivescovo – alla ricerca di un lavoro e di un posto nel mondo. Io sono stato in Siria, in Libano, a Gerusalemme. Ho frequentato il Seminario a Beirut». Ora i suoi fratelli e le sue sorelle vivono tutti negli Stati Uniti. Anche i suoi cugini, spiega. E racconta un episodio che tocca un altro tema scottante, su cui la storiografia ha iniziato a gettare maggiormente luce negli ultimi anni: quello degli armeni rimasti in Turchia e “islamizzati”. Migliaia furono i bambini armeni strappati alle loro famiglie e allevati da musulmani, o donne che scamparono al massacro finendo per sposare gendarmi turchi. Non pochi coloro che finsero di convertirsi per aver salva la vita in qualche modo. «Nel 1958 ero in treno con mio padre, eravamo nei pressi di una cittadina sul confine tra Siria e Turchia. Uscendo dalla mia cabina vidi un uomo alto, con i baffi, con un cestino in mano. Continuava a fissarmi e ne rimasi turbato. Lo dissi a mio padre che uscì a vedere di cosa si trattava. E in quel uomo, dopo un primo approccio, riconobbe suo fratello... Era musulmano. Aveva dodici figli, nessuno dei quali era stato ovviamente battezzato. In Siria con l’aiuto di un sacerdote riuscì a farsi battezzare e a recuperare la propria identità perduta. In seguito tutta la famiglia è emigrata negli Stati Uniti».Minassian resterà in Italia alcuni giorni, e ne approfitterà per tenere una conferenza giovedì al Centro culturale Talamoni di Monza. «Quando parlo del genocidio degli armeni a persone che ne sanno poco o nulla, dopo che sono passati 100 anni, mi chiedo: come mai? Come ha potuto regnare il silenzio su una tragedia così grande? Anche da questo però dobbiamo imparare: perché sulle sofferenze che vivono anche oggi i cristiani, e parlo del Medio Oriente, non cali mai il silenzio, l’indifferenza».