Rifugiati ambientali o ecoprofughi: due definizioni per indicare la condizione di quanti sono costretti ad abbandonare la propria terra d’origine a causa di carestie, mancanza d’acqua, inondazioni, tsunami o cambiamenti climatici che rendono difficilissima la sopravvivenza. Di loro parla il Messaggio per la sesta Giornata per la salvaguardia del creato; di loro si occupa il Servizio dei gesuiti per i rifugiati ( Jrs), impegnata in 57 Paesi del mondo con oltre 1.200 persone tra laici, gesuiti e altri religiosi per rispondere ai bisogni educativi, sanitari, sociali e alle altre necessità di più di cinquecentomila rifugiati e migranti forzati. «Cercando anche di difendere i loro diritti a prescindere dalla razza, dall’origine etnica e dall’appartenenza religiosa», pre- cisa padre Giovanni La Manna, presidente del Centro Astalli, la costola italiana del Jrs. «I vescovi ci ricordano che alcune zone del pianeta sono diventate inabitabili per il mancato accesso ad acqua, cibo, energia, come pure per l’inquinamento e i disastri naturali, stimando che entro il 2050 il numero dei profughi ambientali potrà sfiorare i duecento milioni. Oggi sono circa 25 milioni», riferisce il gesuita. Ma gli esperti prevedono che altri 150 milioni di persone potrebbero diventare sfollati per l’innalzamento del livello del mare e della desertificazione, con un aumento di scarsità d’acqua, inondazioni, tempeste e altri disastri. «Abbiamo le nostre responsabilità in questo degrado del creato: il Sud del mondo è diventato la pattumiera dei rifiuti tossici dell’Occidente; abbiamo esportato sfruttamento e inquinamento», denuncia padre La Manna. Una situazione che non può lasciare nessuno, credente o non, nell’indifferenza: «Alcuni hanno smesso di guardare all’altro come fratello, non riconoscendo in lui un proprio simile ma un problema, un nemico da evitare ancor prima di chiedersi perché è arrivato miracolosamente vivo sulle nostre coste, finito a dormire sulle nostre strade, lontano dal proprio paese. Dobbiamo riscoprire di essere un unico popolo che abita un creato, avere occhi aperti e coscienze sveglie, perché indifferenza uccide anzitutto noi stessi», fa notare il presidente del Centro Astalli. Che incontra quotidianamente uomini, nuclei familiari, donne sole con figli provenienti dal Corno d’Africa o da altre zone del continente, fuggiti da carestie e siccità, da inondazioni e tsunami. Somali, etiopi, sudanesi. Che sfidano la morte affrontando viaggi lunghi e pieni di insidie. Dietro ogni persona un volto, un nome, una storia. Che mass media, politica e opinione pubblica del Nord del mondo tendono a ignorare. «Eppure sappiamo da cosa fuggono – scandisce il gesuita –. Ma il nostro appello di creare canali umanitari sicuri è rimasto inascoltato, finora. Molte donne subiscono violenze sessuali durante il percorso da parte di militari o degli stessi trafficanti di esseri umani, mentre in patria migliaia di bambini continuano a morire di fame; però scappano lo stesso, insieme ai loro figli: tutto quello che hanno, il bene più prezioso da portare con sé. Nei loro confronti, siamo chiamati a comportarci non come fossero fratelli di serie B, smettendo di sfruttare i loro territori. Rispettando anzitutto loro e l’ambiente da cui provengono».