sabato 16 febbraio 2013
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Come molti milanesi d’eccezione, anche il poeta Franco Loi è nato in un’altra città (a Genova, per l’esattezza), ma nel panorama di oggi è difficile trovare un altro che più di lui meriti l’appellativo di “gran lombardo”. Anche se la sua regione, sostiene, è toccata da cambiamenti decisivi. «Negli anni Cinquanta – ricorda – ho girato per l’intera Lombardia. Era un altro mondo, tutto sembrava più distante, ma in realtà era la vicinanza a prevalere».Perché?Da un lato la metropoli era un mondo separato dalla provincia. Capitava di arrivare, che so, in un paesino di collina intorno a Como e di sentirti chiedere come fosse la vita laggiù a Milano. A osservare con più attenzione, però, ci si accorgeva che l’osmosi era profonda. Anche in città non c’era cortile che non ospitasse un’officinetta e per strada era tutto un susseguirsi di botteghe artigiane. In questo modo la tradizione della manualità sopravviveva fin dentro il tessuto urbano, garantendo una continuità di esperienze che dava luogo a una comunità autentica. In città come in campagna, nei piccoli centri come a Milano, i lombardi avevano questo stile di collaborazione e curiosità, di cui adesso, lo ammetto, sento molto la mancanza.Colpa del benessere di ieri o della crisi di oggi?Il primo colpo è venuto dalla meccanizzazione dei processi industriali. Gli operai, prima, erano padroni delle loro mani, ma tutto è cambiato quando si sono ritrovati a controllare una macchina che lavorava al posto loro. Con l’aggravante che, se la macchina si guastava, l’operaio non sapeva come rimediare, gli toccava aspettare il tecnico incaricato di ripararla. È stato l’inizio di una massificazione che, a partire dalla Lombardia, si è espressa anche attraverso i mezzi di comunicazione, portando al predominio del cosiddetto “terziario”, che riduce tutto a merce.Una via d’uscita ci sarà, no?Mi piace pensare a una regione che torna a far andare le mani, ma non in senso figurato. Non si tratta semplicemente di darsi da fare, quanto piuttosto di recuperare una dimensione di concretezza e di operosità che i lombardi sembrano aver smarrito. Sono virtù che, ora come ora, mi capita di ritrovare semmai negli immigrati, spesso straordinariamente volenterosi. Di recente mi sono imbattuto in un gruppo di senegalesi in tuta da operaio e mi è molto piaciuto sentirli parlare fra loro in dialetto milanese. Mi sembra il segno di un’integrazione che senz’altro avrà incontrato molti ostacoli, ma che lentamente si sta compiendo. L’episodio che più mi ha colpito, però, è stato un altro.Quale?Mi trovavo in una cascina fuori città e, al momento di andare a tavola, il padrone mi ha chiesto se potevamo aspettare un attimo. “Devono ancora arrivare i miei contadini”, mi ha detto. Era un gruppetto di indiani, ormai perfettamente inseriti nel lavoro della campagna. Ecco, lì mi è parso di ritrovare la Lombardia accogliente e generosa della mia infanzia, fedele a una religione che era anzitutto religione del lavoro.E dei preti che cosa mi dice?Che hanno svolto e in molti casi ancora svolgono una funzione fondamentale e, purtroppo, trascurata da altri. Sono presenti nei quartieri, entrano nelle case, ascoltano le persone. Sarà un caso, ma i parroci che fanno così presto o tardi si ritrovano ad avere la chiesa gremita.
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