Il Papa con il clero di Roma in una foto d'archivio
È datata 5 agosto, memoria del miracolo della Madonna della Neve e della dedicazione della Basilica di Santa Maria Maggiore, la lunga lettera che il Papa ha inviato al clero della sua diocesi. Un’esortazione spirituale che ha come sfondo il processo di riforma del vicariato di Roma messo in moto dalla Costituzione apostolica In ecclesiarum communione dello scorso gennaio e da serie di nomine avvenute nei mesi successivi.
Francesco nel grazie previo ai destinatari della sua missiva, nel ricordare che anche per i sacerdoti questi possono essere giorni di recupero delle forze dopo le fatiche del ministero sacerdotale, fa presente come quest'ultimo non si misura «sui successi pastorali» e che Gesù guardava gli apostoli «senza esigere da loro una tabella di marcia dettata dal criterio dell’efficienza», ma «offrendo attenzioni e ristoro». Che è lo spirito con cui anche Francesco dice voler condividere le sue considerazioni: «Mi sento in cammino con voi e vorrei farvi sentire che vi sono vicino nelle gioie e nelle sofferenze, nei progetti e nelle fatiche, nelle amarezze e nelle consolazioni pastorali». A ciò si accompagna la preghiera «perché questa nostra madre Chiesa di Roma, chiamata a presiedere nella carità, coltivi il prezioso dono della comunione anzitutto in sé stessa».
«Cari fratelli – prosegue il Pontefice – mi domando: in questo nostro tempo che cosa ci chiede il Signore, dove ci orienta lo Spirito che ci ha unti e inviati come apostoli del Vangelo? Nella preghiera mi ritorna questo: che Dio ci chiede di andare a fondo nella lotta contro la mondanità spirituale». Il tema è un topos della predicazione bergogliana, compreso il rimando al libro Meditazioni sulla Chiesa del gesuita francese o Henri de Lubac (1896-1991) da cui è tratto il concetto appunto di mondanità spirituale, che Francesco ha rielaborato e sintetizza così: «Un modo di vivere che riduce la spiritualità ad apparenza: ci porta a essere “mestieranti dello spirito”, uomini rivestiti di forme sacrali che in realtà continuano a pensare e agire secondo le mode del mondo». Ciò accade «quando ci lasciamo affascinare dalle seduzioni dell’effimero, dalla mediocrità e dall’abitudinarietà, dalle tentazioni del potere e dell’influenza sociale. E, ancora, da vanagloria e narcisismo, da intransigenze dottrinali ed estetismi liturgici…», ovvero è «cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana e il benessere personale». E «come non riconoscere in tutto ciò la versione aggiornata di quel formalismo ipocrita, che Gesù vedeva in certe autorità religiose del tempo e che nel corso della sua vita pubblica lo fece soffrire forse più di ogni altra cosa?».
La mondanità spirituale è una tentazione «gentile», perché si insinua «sapendosi nascondere bene dietro buone apparenze, addirittura dentro motivazioni “religiose”», ed è collegata a un’altra deriva che Francesco non smette di denunciare: «il clericalismo».
«Scusate se lo ribadisco – spiega – ma da sacerdoti penso che mi capiate, perché anche voi condividete ciò in cui credete in modo accorato, secondo quel bel tratto tipicamente romano (romanesco!) per cui la sincerità delle labbra proviene dal cuore, e sa di cuore! E io, da anziano e dal cuore, sento di dirvi che mi preoccupa quando ricadiamo nelle forme del clericalismo; quando, magari senza accorgercene, diamo a vedere alla gente di essere superiori, privilegiati, collocati “in alto” e quindi separati dal resto del Popolo santo di Dio».
Il Papa richiama il profeta Ezechiele, sant’Agostino, san Paolo per concludere che «questo è lo spirito sacerdotale: farci servi del Popolo di Dio e non padroni, lavare i piedi ai fratelli e non schiacciarli sotto i nostri piedi».
Ma il clericalismo, aggiunge il Pontefice, «può riguardare tutti, anche i laici e gli operatori pastorali: si può assumere infatti “uno spirito clericale” nel portare avanti i ministeri e i carismi, vivendo la propria chiamata in modo elitario, chiudendosi nel proprio gruppo ed erigendo muri verso l’esterno, sviluppando legami possessivi nei confronti dei ruoli nella comunità, coltivando atteggiamenti boriosi e arroganti verso gli altri. E i sintomi sono proprio la perdita dello spirito della lode e della gratuità gioiosa, mentre il diavolo s’insinua alimentando la lamentela, la negatività e l’insoddisfazione cronica per ciò che non va, l’ironia che diventa cinismo. Ma così ci si fa assorbire dal clima di critica e di rabbia che si respira in giro, anziché essere coloro che, con semplicità e mitezza evangeliche, con gentilezza e rispetto, aiutano i fratelli e le sorelle a uscire dalle sabbie mobili dell’insofferenza».
«Rimbocchiamoci le maniche e pieghiamo le ginocchia (voi che potete!)» scrive sul finire Bergoglio, «preghiamo lo Spirito gli uni per gli altri, chiediamogli di aiutarci a non cadere, nella vita personale come nell’azione pastorale, in quell’apparenza religiosa piena di tante cose ma vuota di Dio, per non essere funzionari del sacro, ma appassionati annunciatori del Vangelo, non “chierici di Stato”, ma pastori del popolo. Abbiamo bisogno di conversione personale e pastorale».
Quindi il richiamo conclusivo all’immagine della Salus Populi Romani: «Ho chiesto alla Madonna di custodirvi e di proteggervi, di asciugare le vostre lacrime segrete, di ravvivare in voi la gioia del ministero e di rendervi ogni giorno pastori innamorati di Gesù, pronti a dare la vita senza misura per amore suo».