«Sono padre Oreste, father Oreste, non abbiate paura, la polizia when I am here non vi fa niente...». Il nebbione è fitto, il buio è quello pesto e disumano delle periferie, le ragazze restano acquattate nella boscaglia. Ma lui scandisce più volte la parola chiave, «father Oreste Benzi, father, father». Funziona: escono in quattro, poi cinque, urlano di gioia e lo circondano, come avessero visto Gesù Cristo in persona. Seminude loro, tonaca e cappotto nero il prete, sono schiave e lui è lì per liberarle...
Don Benzi benedice una prostituta incontrata per strada in un fermoimmagine del docufilm "Il pazzo di Dio" - .
Inizia così, con una tra le migliaia di “avventure” che si potrebbero raccontare di don Oreste Benzi, il docufilm (da oggi nelle sale cinematografiche) “Il Pazzo di Dio” del regista Kristian Gianfreda, dedicato al sacerdote riminese nell’anno che culminerà con il centenario della sua nascita (7 settembre 1925). E titolo non potrebbe essere più azzeccato: in sessanta minuti si viaggia sulle montagne russe di un prete che ha fatto la rivoluzione e ha cambiato la sua fetta di mondo. Il perché ce lo spiega lui stesso: «Sono sempre stato spregiudicato, che significa non mettere paletti davanti al Dio che viene, cioè all’avventura, adventus è qualcosa che viene e che quindi non c’era. Allora mi piace andare incontro a ciò che viene e non restare fermo a ciò che c’era». Ed ecco allora le sue invenzioni geniali, prima tra tutte la casa-famiglia, “semplicemente” dare una famiglia a chi non l’ha. Ecco poi la battaglia per la chiusura degli istituti, casermoni in cui orfani, disabili, senzatetto, drogati, anziani venivano ammucchiati e dimenticati. Ed ecco il principio su cui si fonda la sua creatura più folle e straordinaria, l’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII (anzi Xxiii, con il logo che stilizza una famiglia), oggi diffusa in tutti i continenti con oltre 600 strutture di accoglienza e 26mila persone soccorse tutti i giorni: i poveri non vengono a cercarci, allora dobbiamo andarci noi a cercare loro. «Se venite via dalla strada io vi do un tetto, un passaporto e un lavoro», propone a quelle ragazze don Benzi nel suo inglese-romagnolo, e in migliaia lo hanno seguito.
Nel lavoro di Gianfreda, già autore del film “Solo cose belle”, delizioso affresco di ciò che avviene nelle case-famiglia di don Benzi, filmati d’epoca e testimoni di oggi si alternano nel raccontare il don Oreste di tutti i giorni e di tutte le notti, quello che non dormiva mai (si appisolava ogni tanto) «perché guai a lasciare indietro qualcuno, può darsi che non tornerà più». Con questo spirito prima di salutare le ragazze lascia loro il numero di cellulare e in Comunità l’ordine è di rispondere a qualsiasi ora, «chi mi ha cercato potrebbe non richiamare». E con lo stesso spirito, mentre corre in macchina verso Roma con un suo stretto collaboratore per incontrare un ministro, pretende di uscire dall’autostrada e tornare a Rimini, dove a un senzatetto aveva detto di ripassare la sera.
«Dopo anni di dolore desideravo solo morire – testimonia una ex prostituta – ma quella notte si fermò un’auto da cui uscì un uomo, lui non mi chiese quanto costi, mi chiese quanto soffri, e mi disse di seguirlo». «Ero per terra in stazione la notte di capodanno, ero fatto di ogni tipo di droga, avevo perso gli affetti, mi restava solo la morte, mi dicevo “è finita e sono contento che sia finita” – racconta Oscar Baffoni, poi missionario della Papa Giovanni XXIII nel mondo –. Di colpo in sala d’attesa entrò questo cappottone nero, in mano una bottiglia e un panettone, venne da me e mi chiese se volessi brindare con lui. Finì che gli raccontai la mia vita e lui mi fece una proposta: vieni con me, vedrai che facciamo tutto nuovo».
Stride di fronte al fuoco di don Benzi la tiepida miopia di opinionisti televisivi, politici e giornalisti, lontani anni luce dalla vita vera, quella che lui non ha timore a raccontare nei talk show come nelle Aule del potere e della Giustizia. Senza remore, bistratta volti ancora oggi noti (e attivi) che alle sue denunce oppongono la banalità del quieto vivere (sono schiave? sì ma in fondo è il mestiere più antico del mondo, perché cambiare la cose...) e davanti a chi in tivù lo tratta da santo («Lei è straordinario, mica possiamo vivere come lei, noialtri») scuote la testa amareggiato perché quello che pretende è solo il minimo della giustizia.
In pieno Sessantotto non contrasta i movimenti giovanili, anzi, li sfida ad essere coerenti fino in fondo, manifesta con loro il primo maggio ma in mezzo ai suoi disabili in carrozzina: chiedono lavoro, dignità, uguaglianza, sulle loro bandiere sventolano slogan mai visti prima, “Chiudiamo gli istituti e apriamo le fabbriche. Gli handicappati devono entrare in società».
Sullo sfondo, costante, la sua fede innamorata di Dio, «il mio respiro», come la definisce. Chi è don Benzi ce lo spiega lui stesso con la parabola del cane, che del suo amico umano non capisce i progetti ma lo ama profondamente e si fida: «Chi è don Benzi? Quel cane».
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