Dopo il primo momento di sgomento di fronte a quella che mi è parsa subito la notizia di un evento assolutamente inaudito e straordinario, come probabilmente tutti, via via che la notizia si diffondeva, mi sono interrogato sul significato che, sia pure problematicamente, poteva attribuirsi a questo fatto così enorme. Ho cominciato ad ascoltare che da più parti si sottolineava il senso di impotenza che il Papa ha provato in questi ultimi anni di fronte all’assalto spesso mediatico e spettacolare che è stato rivolto da più parti e in più Paesi al Vaticano. Le dimissioni sarebbero quasi un atto di ammissione della sua incapacità fisica e psicologica a prendere decisioni in un momento così drammatico per la Chiesa e per l’intero Occidente. Mi è venuto subito in mente il film di Nanni Moretti nel quale, quasi profeticamente, si rappresenta la storia di un Papa che rifiuta di assumere il ruolo pontificale perché sente tutta la propria inadeguatezza rispetto a una funzione che in tutto il mondo è comunque riconosciuta come autorità magisteriale e a cui rendono omaggio tutti i potenti della terra. Riflettendo su quel film, infatti, mi è parso subito evidente il contrasto tra la figura drammatica del Papa che fugge fuori dal Vaticano nelle vie di Roma a incontrare persone, uomini e donne, nei luoghi più disparati, e le modalità con le quali i cardinali riuniti in conclave gestiscono l’improvvisa evenienza di avere eletto un Papa che non vuole esserlo. Le preoccupazioni dei cardinali, che addirittura cercano di utilizzare dei marchingegni per mostrare il Papa nella sua stanza e che poi trascorrono il tempo "chiacchierando" di tutto e persino divertendosi con improvvisate partite di pallavolo, sono infatti esclusivamente rivolte all’immagine pubblica dell’istituzione.
Può sembrare irriguardoso fare riferimento a questo film, ma posso assicurare che ho visto nella sua rappresentazione della figura del Papa un enorme rispetto per la sofferenza e la drammaticità in cui si trova un uomo solo che viene designato come vicario di Cristo. Mi sono venute alla mente le terribili parole che ogni sacerdote pronuncia nella celebrazione della Messa: Domine, non sum dignus ut intres sub tectum meum. In questa affermazione che precede la distribuzione dell’Ostia consacrata ho sempre sentito la debolezza strutturale dell’animo umano e la sua incapacità a sopportare la sofferenza, il dolore e persino le normali difficoltà di stare al mondo, il riconoscimento chiesto a ciascuno di accettare la propria limitatezza e la propria mortalità, affidando la salvezza alle mani di un Padre Amoroso. Rispetto a questa povertà e indegnità dell’essere umano ad assumere il ruolo di vicario del Figlio di Dio si accompagna il confronto drammatico con il racconto della vita di Gesù Cristo nei quattro Vangeli che ci sono stati trasmessi. Come si fa a dimenticare, vivendo il ruolo di Papa, che Cristo è principalmente il testimone di una terribile crocifissione e che, nella solitudine della propria passione, ha sudato sangue profetizzando il tradimento persino dei suoi stessi discepoli? Pensando queste cose mi sono via via convinto che, come nel film di Moretti, le dimissioni del Papa non sono un gesto di debolezza né una dichiarazione di impotenza, ma un atto di forza e di coraggio che lancia una sfida alla Chiesa e al mondo. Come Cristo fu tradito dai suoi discepoli e venduto per trenta denari da uno di loro, questo Papa è stato continuamente tradito nell’ambito della Chiesa stessa e persino dal suo assistente di camera, che ha trafugato documenti e denaro.
È proprio a questo tradimento della Chiesa che papa Ratzinger alludeva nel suo profetico commento alla Via Crucis che si è svolta nelle vie di Roma mentre il suo predecessore viveva gli ultimi momenti della vita. Vorrei che tutti noi rileggessimo quelle parole, perché sono già di per sé un programma di riforma e di denuncia dei nemici del messaggio cristiano che si annidano all’interno della Chiesa stessa, magari ostentando una devozione che non esprime nessuna riservatezza e nessuna profondità interiore. A differenza di papa Giovanni Paolo II, che si era posto rispetto al mondo nella posizione di un comunicatore mediatico eccezionale e che aveva fatto delle continue visite pastorali negli altri Paesi l’occasione di un proselitismo di massa, papa Ratzinger sin dai primi suoi atti ha inteso ribadire la differenza sostanziale fra la fede in Gesù Cristo e il generico sentimento religioso che si manifesta nelle pratiche cultuali di ogni popolo. La dedizione e l’intelligenza con cui ha dedicato la sua passione per la figura di Gesù Cristo alla scrittura di tre volumi che ne interpretano l’attualità storica nel contesto determinato di una grande crisi di civiltà, mostra che il suo interesse fondamentale era ritrovare il filo rosso che deve unire la comunità ecclesiale alla tradizione evangelica. Ci sono pagine dei tre volumi del Papa che indicano una strada di rapporto con la persona del Figlio di Dio e dell’Uomo lontana da ogni pietismo conformistico e che chiamano invece alla consapevolezza della rottura epocale che il Messia rappresenta. Tutta la parte del secondo volume dedicata a seguire la predicazione di Gesù e a sviluppare il significato dei rapporti che egli intrattiene con la ufficialità formale del culto ebraico affidato alla casta dei rabbini e al loro direttorato tende a mettere in evidenza che l’assoluta novità del Messia sta nel volere trasformare l’eredità biblica del Padre severo in un messaggio fraterno che ritrova la strada della misericordia e dell’amore paterno. A mio parere decisive, come ho cercato di scrivere in una mia recensione, sono le pagine dedicate alla profezia di Gesù Cristo sulla inevitabile distruzione del Tempio di Gerusalemme, che non è capace di riconoscere e ascoltare i Profeti inviati da Dio ma che anzi trasforma spesso il Tempio in un puro spazio mercantile dove viene dissacrata ogni significazione simbolica del luogo. Papa Ratzinger raggiunge in queste pagine momenti di affettività filiale che istituiscono una relazione personale con il Messia venuto ad assumere la forma dell’uomo mortale e sofferente.
Come si legge nei Vangeli, non è l’offerta rituale dell’agnello né il pagamento della decima che introduce al mistero del rapporto tra uomo e Dio, ma la comunicazione interiore che si realizza attraverso l’identificazione del volto di Gesù con il volto dei diseredati e dei malati. Tutto il proseguire del pontificato che ad alcuni è parso intellettualmente e teologicamente arido, frutto di una formazione prevalentemente filosofica, è invece percorso dal tema della Carità, le cui radici culturali reinterpretano l’eros greco in rapporto con l’amore cristiano. Alcuni hanno letto l’enciclica Caritas in veritate alla luce del dialogo con Habermas, come la ricerca di una via razionale alla conquista della fede. Trovandomi a commentare questa enciclica ho cercato di mostrare i limiti di questa interpretazione razionalistica, perché invece personalmente mi è parsa proprio il tentativo di istituire un nesso inscindibile tra Amore e Verità. Non c’è una gerarchia tra Amore e Verità nel pensiero di papa Ratzinger, ma un reciproco rinvio che si manifesta soltanto nelle relazioni interpersonali e non nell’arida precettistica di una dogmatica priva di slanci verso la sofferenza e il dolore dell’uomo. Il tema del dolore è stato infatti un altro tema ricorrente nelle riflessioni del Papa e nei suoi messaggi domenicali, anche se nel suo italiano irrigidito dal semplice fatto che Ratzinger non poteva che pensare in tedesco si è lasciato poi cadere nella banalità di una compassione generica nei confronti di tutte le vittime dei soprusi, dello sfruttamento e delle torture. Io credo che questa voce del Papa non è stata né ascoltata né compresa da molte parti del mondo cattolico, dove invece si sono manifestate sempre più lacerazioni e contrasti per motivi che nulla hanno a che vedere con il problema del messaggio cristiano.
Per questo l’atto di dimissioni non è un segno di stanchezza e di debolezza, ma la forza e il coraggio di trasmettere nell’ambito della Chiesa, e anche oltre, il senso dell’umiltà e del servizio, per contrastare l’arroganza dei poteri e la presunzione degli uomini che riducono l’esistenza a edonismo e consumismo, desertificando sempre più il senso dell’abitare la terra. Le dimissioni del Papa sono la testimonianza che neppure il Vicario di Cristo può arrogarsi prerogative di onnipotenza di fronte al resto del mondo. Come Ratzinger ha sottolineato, Gesù non è venuto per organizzare la guerriglia degli zeloti, ma per trasformare la violenza dell’uomo sull’uomo in una capacità di perdono e di reciproco servizio. Le dimissioni sono una sfida alla Chiesa, che deve adesso misurarsi con la potenza di questo messaggio epocale e col cinismo delle nostre società che hanno perso quasi totalmente il senso del valore spirituale dell’umiltà e della riservatezza. Come ci ha detto Gesù Cristo, anche la preghiera deve amare la solitudine e non il cerimoniale pubblico, che spesso nasconde la durezza del cuore.