Il Papa con i bambini allo Stadio Olimpico - Vatican Media
Padre Ibrahim Faltas, arrivando a Roma con una settantina di bimbi provenienti da Gaza e da Betlemme, ha detto telefonicamente: «I bambini ci guardano? Sì, ma siamo soprattutto noi a doverci riflettere, come uno specchio, negli occhi dei bambini e cercare di apprendere dalla loro speranza, che spesso deludiamo». A queste parole vengono in mente i bambini incontrati allo scoppio della guerra in Ucraina, rifugiati a Ismail. Erano con una loro maestra, cercavano di mettere, dentro una scatola, i loro desideri di pace ed esprimevano il loro dissenso verso gli adulti, dicendo: «Anche noi litighiamo, ma come è possibile litigare con le bombe?». Frasi semplici, che – lette e ascoltate – ci facevano vergognare di essere così grandi e, in fondo, moralmente piccoli, gretti, pieni di astio, in balia di un mondo che non vede oltre la crepa, che non sa lasciare entrare le luci da quelle crepe, come avrebbe detto Leonard Cohen. Sabato, allo stadio Olimpico di Roma, non c’era solo il volto di una Chiesa in uscita, ma anche la concreta attenzione che papa Francesco intende rivolgere al mondo dell’infanzia.
Il gruppo Amica Sofia, sulla scia degli insegnamenti di grandi maestri (da don Milani a Mario Lodi), da anni si pone in ascolto delle domande dei più piccoli, quelle domande che tecnicamente si definiscono “ad alto potenziale filosofico”: sì, noi adulti siamo abituati a misurare, definire, incastrare. E invece esistono frasi dei bambini capaci di “toccare” i concetti. Che cos’è la pace? Loro la materializzano, dicendo: «Mi serve un etto di pace». Frase assurda? Per noi, forse, ma non per i bambini, capaci di stringere fra le mani «un etto di pace», di vederlo concretizzato in un colore, in un foglio, in un giocattolo, nella mano del compagno di banco. È questo insegnamento che, sabato e domenica, papa Francesco ha tentando di dare al mondo: «Guardiamo i bambini e rendiamoci all’altezza di quello sguardo. Non misuriamoli, non valutiamoli, ma impariamo da loro che cos’è l’amore, il senso di affidamento, la voglia di sicurezza».
In un nido comunale romano, un giorno, come racconta l’insegnante Francesca Iossa, ci sono bimbi molto piccoli, bimbi che non ancora hanno maturato la voglia e la consapevolezza di doversi esprimere con le frasi. Un giorno, però, Angelica, piccola piccola, alza lo sguardo e vede, per la prima volta, la grandezza: vede un albero alto alto e lo indica al piccolo Vittorio. Mi dice allora la maestra Francesca: «Immagina quanto si è piccoli nell’arco dei primi 36 mesi di vita e quanto può essere grande un pino che ha 36 cicli di vita! Questo potrebbe esprimere che cos’è la pace per i miei bimbi. Lo stupore e la grandezza di un bene comune essenziale. Per le frasi loro avranno tempo, ora non le utilizzano, ma sanno…» E che cosa sanno? I bambini di tutto il mondo, come quelli incontrati durante la pandemia nelle aree più disagiate del nostro Paese, come raccontato in Pensare da bambini. La sfida di Amica Sofia (Erickson editore), sanno l’importanza della vicinanza, del contatto, degli occhi che rinascono a ogni nuova immagine, senza essersi fatti contaminare dall’assuefazione. Anna, 7 anni, di Kharkiv, in quel rifugio di Ismail, disse: «Bisogna avere tanta pazienza con i grandi! Che cosa puoi aspettarti da chi non è capace di vedere le nuvole?».