Nel carcere di Regina Coeli c’era un “visitatore” molto particolare. Un segno di speranza. È la “Croce della misericordia”, realizzata dai detenuti del carcere di massima sicurezza di Paliano e benedetta da papa Francesco il 14 settembre 2019. Da allora ha iniziato un pellegrinaggio in tutti i penitenziari italiani, prima in Sicilia, poi in Campania e ora nel Lazio, iniziando proprio dal carcere romano. Sul legno sono dipinte scene bibliche di liberazione, di riscatto e di redenzione, ma anche le immagini di mamme in carcere con i loro bambini. Ieri la Croce è stata al centro di una celebrazione della Parola nella grande e altissima “rotonda”, il famoso cuore di Regina Coeli. A presiederla l’arcivescovo Lazarus You Heung-sik, prefetto della Congregazione per il clero, assieme al segretario della stessa Congregazione, l’arcivescovo Andrés Gabriel Ferrada, al cappellano di Regina Coeli, don Vittorio Trani, e ad altri sacerdoti. Con loro, fra agenti penitenziari e operatori del carcere, un gruppo di detenuti, «una rappresentanza di tutte le sezioni, perché nessuno si senta escluso », ci tiene a sottolineare la direttrice di Regina Coeli, Silvana Sergi.
«Questa Croce è più significativa perché fatta da voi – aggiunge rivolgendosi ai detenuti – dai vostri compagni. E questo è un momento spirituale e di riflessione che aiuta tutti ». Un momento vissuto anche da altri detenuti che hanno seguito la celebrazione dietro ai grandi finestroni dei quattro ballatoi della “rotonda”. È soprattutto a loro che si rivolgono gli interventi. «La Croce della misericordia è un segno di pace, di speranza, di riconciliazione – dice don Raffaele Grimaldi, ispettore dei cappellani delle carceri –. Il Signore che viene in questi luoghi di sofferenza, ancor di più in questo periodo di pandemia. E noi siamo qui per dire ai detenuti che il Signore è venuto a visitarli, a toccare le ferite, a invitare a riprendere il cammino».
Un momento della celebrazione nel carcere di Regina Coeli a Roma - .
«Sono venuto con gratitudine – sottolinea l’arcivescovo You Heung-sik, ricordando di essere stato anche lui cappellano in Corea –. Agli occhi del Signore noi siamo tutti insieme, anche nel carcere si può vivere per gli altri, amare gli altri». La liturgia della Parola prevede un brano di Isaia: «Il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti». Poi il Vangelo di Luca, con la Crocifissione e il dialogo coi “malfattori”. E proprio da queste parole parte l’omelia dell’arcivescovo Ferrada. «Questa è una serata che si apre alla speranza sotto la Croce che è il simbolo del capovolgimento del mondo: Gesù è morto non per i giusti ma per il riscatto dei peccatori, di tutti noi, perché tutti lo siamo».
Per tutti c’è la misericordia, anche per chi ha fatto «scelte libere sbagliate» perché, aggiunge il presule, «sulla Croce Gesù diventa giudice di salvezza, di vita nuova, non di condanna ». Per questo, conclude, «facciamo spazio al Signore perché ci accolga a braccia aperte. Solo così siamo davvero liberi». E mentre pronuncia queste parole, due passeri, non si sa come entrati nella “rotonda”, volano e cinguettano tra un ballatoio e l’altro. Liberi. Una bellissima coincidenza. E molto belle sono anche le preghiere dei fedeli. Un’operatrice e un agente penitenziario chiedono al Signore aiuto per il loro difficile lavoro in carcere. Un detenuto prega per le famiglie di chi è in carcere.
Un altro, infine, prega «perché nessuno perda la fiducia nella vita». Parole ancor più impegnative se a dirle è chi sta pagando con la reclusione i propri sbagli. Il piccolo coro composto da volontari e detenuti intona un canto che parla di speranza, «Signore tu hai vinto la morte». Poi tutti i detenuti presenti si avvicinano alla “Croce della misericordia”. Chi lascia una delicata carezza, chi un bacio, un segno della Croce, una preghiera silenziosa. Davvero la Croce, come disse il Papa, «è occasione per non soffocare la fiammella della speranza».