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L’indizione di una giornata di preghiera e di digiuno da celebrare venerdì prossimo «appartiene allo stile di papa Francesco ed evoca quello di san Giovanni Paolo II, che in circostanze similmente drammatiche chiamò a raccolta il popolo cristiano per implorare la pace». È il cardinale Fernando Filoni a richiamare questa analogia in un colloquio con Avvenire. E lo fa a ragion veduta. Ai tempi della seconda Guerra del Golfo - era il 2003 - era nunzio apostolico in Iraq. E oggi, dopo significative esperienze ai vertici della Curia romana (è stato sostituto e poi prefetto dell’allora Propaganda Fide), è gran maestro dell’Ordine del Santo Sepolcro, che svolge la sua preziosa missione proprio in Terra Santa. In quella Terra Santa sconvolta dall’eccidio compiuto da Hamas tra i cittadini israeliani, dal dramma degli ostaggi catturati e dalla dura risposta dell’esercito di Tel Aviv che miete vittime anche tra civili innocenti.
Eminenza, dopo averlo fatto per la Siria e di continuo per l’Ucraina, Papa Francesco esorta il popolo cattolico a pregare di nuovo per la pace...
È un gesto forte e incontenibile questo proposto dal Santo Padre. Perché per noi credenti essere sollecitati alla preghiera e al digiuno non è un fatto meramente sociologico. Ma è di più. Molto di più. È un fatto spirituale, a somiglianza di quello che Gesù ha fatto nella sua vita. La preghiera e il digiuno sono un grido. E Gesù stesso non si è esonerato dal gridare. Come ha fatto, drammaticamente, sulla croce, assumendo su di sé la sofferenza dell’umanità. E nei momenti di necessità tutti, a cominciare dai bambini, gridano, invocano un aiuto. Il grido, appunto, è un atto forte e incontenibile, sempre aperto alla speranza. Gesù stesso ha gridato abbandonandosi con fiducia e speranza alla volontà del Padre. Aggiungerei poi un altro aspetto.
Quale?
La preghiera, la preghiera per la pace in particolare, appartiene alla tradizione biblica. Nella Sacra Scrittura abbondano i richiami alla pace. Nell’Antico Testamento il Messia era visto come il Principe della Pace. La giornata di preghiera e digiuno indetta dal Papa si innesta in anche in questa tradizione.
Giornata che nei desideri di Francesco dovrà avere una dimensione ecumenica e inter-religiosa...
Il Medio Oriente è una terra di incontro tra popoli, religioni, visioni politiche, culturali, sociali. Forse è la regione nel mondo più ricca di queste realtà. Il Papa ha pensato, giustamente, che l’invito a gridare la pace, con la preghiera, vada esteso a tutti. Agli ebrei, ai musulmani, ai cristiani di tutte le denominazioni, agli uomini di buona volontà. A tutti. È un invito aperto. Non ci si può chiudere in un momento come questo. Non ce lo possiamo permettere. E questo risponde alla visione tipica di papa Francesco, espressa in «Fratelli tutti». Gridare la pace insomma è una necessità. Non solo per l’oggi, manche per il futuro. Perché le violenze di oggi si ripercuoteranno inevitabilmente sulle generazioni future.
Anche alla luce della sua esperienza diplomatica, ritiene che questo grido di pace possa sortire qualche effetto?
Il panorama, umanamente parlando, è sconfortante. È quasi impossibile pensare che in una situazione così complessa e drammatica possa fiorire la pace. Ma al Signore della storia nulla è impossibile. Poi ci sono gli uomini... Ora come ora credo che sarebbe già importante recuperare la strada – smarrita, con esiti disastrosi! – che possa condurre alla pace, che deve essere giusta, altrimenti non è pace.
Quale è la via da riprendere?
Innanzitutto una tregua. Uno stop alla guerra. Come ha implorato con toni accorati il Santo Padre. Perché la guerra genera guerra. Inevitabilmente. E poi riprendere il dialogo, ulteriore passo in questa via per la pace. E questo non può avvenire senza il concorso e la buona volontà di tutti. A livello nazionale e internazionale. Abbiamo già visto quello che è successo in Iraq. Non aver ascoltato il grido di pace ha generato – e sono passati decine di anni – violenze su violenze che non sono ancora terminate. Lì la guerra è finita, ma non è finita la violenza, la pace non è ancora arrivata. In Israele, a Gaza, siamo ancora in piena guerra.
Eminenza, cosa sta facendo l’Ordine del Santo Sepolcro in questo drammatico frangente?
Il nostro Ordine ha a cuore la Terra Santa come la ebbe san Francesco. Per noi l’amore verso la Terra Santa è un amore aperto. Nelle nostre scuole abbiamo alunni ebrei, in Israele, e musulmani, in Palestina. La nostra attività sociale la svolgiamo – come stabilito dal beato Pio IX e confermato dai successori – attraverso il Patriarcato latino di Gerusalemme, che conosce bene la realtà e sa dove ci sono le necessità anche le più minute. Tanti cavalieri e dame ci chiamano per chiedere come aiutare. Al Patriarcato abbiamo già comunicato che è attivo un fondo specifico per i bisogni generati da questa crisi.