Proseguiamo la serie di interviste a commento dell’enciclica di Benedetto XVI «Caritas in veritate». Dopo il teologo don Mario Toso, l’economista Stefano Zamagni, il segretario della Cisl Raffaele Bonanni, il cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, il rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Lorenzo Ornaghi, l’ex presidente del Fmi (Fondo monetario internazionale) Michel Camdessus e il presidente di Microsoft Italia, Umberto Paolucci, è la volta dell’economista Mario Monti, presidente dell’Università Bocconi di Milano. Mario Monti è una delle figure più note del panorama economico internazionale. Lombardo di Varese, dove è nato nel 1943, si è laureato in economia e commercio all’Università Bocconi di Milano, perfezionando successivamente i suoi studi negli Stati Uniti, alla Yale University. Presidente dell’Università Bocconi dal 1994, è stato della stessa università anche professore di economia politica e rettore (ha ricoperto quest’ultimo incarico dal 1989 al 1994). Per dieci anni è stato membro della Commissione europea, responsabile del Mercato unico, servizi finanziari e fiscalità (dal 1995 al 1999) e della Concorrenza (dal 1999 al 2004). È stato membro anche di diverse commissioni dello Stato italiano, tra cui quella del Ministero del Tesoro sul sistema creditizio e finanziario. Attualmente è membro del gruppo di riflessione «Europa 2020-2030», istituito dal Consiglio europeo e presieduto dallo spagnolo Felipe Gonzales; consulente (advisor) internazionale di Goldman Sachs (una delle più grandi banche d’affari) e membro dell’ufficio di consulenza della Coca Cola company. Appunti, ritagli, libri: la scrivania di Mario Monti mostra che il presidente dell’Università Bocconi di Milano ha preso molto sul serio la
Caritas in veritate, come anche l’intervista che ha accettato di rilasciare ad
Avvenire su un’enciclica che parla anche ai grandi economisti come lui. E in oltre un’ora di colloquio nel suo studio universitario segue il filo di un ragionamento che parte dalle pagine di Benedetto XVI per arrivare ai grandi scenari dell’economia. «Ragionando sulla crisi di questi anni – spiega – vedo cose devastanti insieme a un fiorire di fenomeni nuovi e promettenti. Su questo orizzonte adesso arriva la luce autorevole dell’enciclica, in modo approfondito e costruttivo».
Professore, che valore ha il testo del Papa per la riflessione in corso sulle grandi categorie economiche e sociali?«L’enciclica giunge in un momento che rende eccezionalmente interessante e feconda la riflessione stimolata dal documento. È vero – come qualcuno ha rilevato – che non è la crisi l’oggetto del testo, né è da crisi lo spirito che lo anima. È stato persino notato che c’è una scarsa ricorrenza della stessa parola "crisi" a vantaggio di un complessivo tono di fiducia. Il Papa coglie il mondo dell’economia e degli studi economici in un momento nel quale sono aperti assai più del consueto alla critica e si scoprono bisognosi di ri-orientamento. Si può dire che la "domanda" di un chiarimento profondo era particolarmente sentita, e l’"offerta" che arriva dal Papa trova un ascolto ancora maggiore, anche in ambienti che normalmente avrebbero prestato minore attenzione».
Cosa l’ha colpita nella lettura della «Caritas in veritate»?«Mi impressiona molto che l’enciclica proponga anche un inquadramento di princìpi di governo dell’economia in una società globale. Chi è interessato a come può essere gestita l’economia in un quadro così complesso trova molti princìpi di riferimento. Quello del Papa è quasi un documento "tecnico" sul governo di una società nella quale l’economia ha un ruolo importante. C’è un’espressione che mi è rimasta particolarmente impressa, là dove il Papa indica la necessità di una "vera Autorità politica mondiale", con la "a" maiuscola. Dal rapporto tra economia ed etica e tra società e individuo si arriva con naturalezza a un passo straordinariamente impegnativo, del quale si avverte l’esigenza proprio da parte di coloro che studiano e vivono l’economia e i mercati, anche se non condividono l’orientamento etico della Chiesa cattolica».
Qual è a suo avviso il rilievo di questa sottolineatura di Benedetto XVI?«Forse è un punto che avrebbe meritato uno sviluppo ulteriore: quello che il Papa dice, infatti, apre il grande capitolo della cessione di sovranità da parte dei poteri pubblici nazionali. Una "vera Autorità politica mondiale" è condizione necessaria per gestire l’economia in modo che sia rispettosa di due fondamentali esigenze etiche, riguardanti l’una la distribuzione nell’oggi, tra Paesi e all’interno dei Paesi, l’altra la distribuzione nel tempo, tra le generazioni. Diventa eticamente necessario che gli Stati si muovano verso una forma di
governance che si avvicini a questa "vera Autorità politica mondiale": se non si fanno passi significativi in questa direzione, i problemi distributivi, oltre a quelli della stabilità e della crescita, non possono essere seriamente affrontati».
La costruzione di una simile Autorità le sembra realizzabile?«Il mondo sta lentamente avanzando in questa direzione. Sono in atto fenomeni di integrazione regionale, come quello europeo, nei quali traspare la consapevolezza crescente che, data la globalizzazione, i singoli Stati non sono più in grado di esercitare la propria sovranità su tutto. Essa diventa sempre più teorica e sempre meno effettiva e ne occorre quindi una condivisione in sedi più ampie. Oltre all’Unione europea, anche il G8 e ora il G20 vanno in questa direzione, così come l’Onu. Certo, il Papa indica un’istituzione "mondiale", che abbia "autorità" autentica, ovvero una capacità rilevante di decisione politica e una forma di legittimazione dal basso che agli organismi internazionali oggi manca (ad eccezione della Ue, che ha un Parlamento a elezione diretta). A chi pensa che l’idea di questa "autorità" sia utopistica, ricordo che il mondo ha compiuto grandi passi nell’acquisire la consapevolezza che se non si va in quella direzione i problemi sono destinati a diventare distruttivi per l’economia e la società. La crisi l’ha dimostrato».
La crisi, appunto, ha cambiato i paradigmi economici. Anche quelli etici?«Ha aperto gli occhi e le orecchie, disponendo a vedere e ad ascoltare anche chi prima non era propenso a farlo. È diventata una cartina di tornasole che ha fatto comprendere più largamente tendenze percepite in passato solo da pochi. Per questo, il terreno sul quale plana questa enciclica è molto fertile».
Il grande tema che percorre il testo del Papa è quello dello sviluppo. A quali condizioni deve sottostare perché presto o tardi non si mostri ancora effimero e parziale?«La crisi ci aiuta a capire che la sostenibilità non è un orpello, ma sempre più un requisito indispensabile dello sviluppo. Si sapeva, certo, che il mercato – meccanismo insostituibile per il benessere e la crescita – è soggetto a "fallimenti", non è sufficiente a garantire uno sviluppo sostenibile, richiede interventi di politica economica. Ma la crisi ci ha mostrato che la stessa economia di mercato può non essere sostenibile, non essere più accettata, se non affronterà efficacemente i problemi delle eccessive disuguaglianze».
Il Papa scrive che l’umanità globalizzata va vista come una «famiglia di popoli». Si ritrova in questa idea?«Certamente. Sempre più, nella realtà e nella percezione, l’umanità è davvero una grande famiglia comunicante, condizionata e attenta a ciò che accade ad altri componenti, con ricadute nei criteri di giudizio e nelle scelte di governo. Lo spazio per preferenze diverse si riduce, il che significa che le scelte etiche che ispirano le politiche pubbliche devono essere più armonizzate. Un punto che ci riporta dritti all’Autorità mondiale».
È possibile che ci si possa riconoscere largamente in una tavola di valori etici condivisi per uno sviluppo più rispettoso dell’uomo, e dunque più solido?«La discussione sui valori che devono guidare condotte individuali e scelte dei poteri pubblici diventa sempre più importante via via che la globalizzazione riduce gli spazi per impostazioni radicalmente distanti. Per effetto di questa crisi, l’etica è entrata diffusamente nei documenti di istituzioni e banche: si è compreso che essa è nel cuore delle cose e non un loro aspetto esterno».
Già: ma quale etica, professore?«Credo che ci siano princìpi sui quali è necessario convergere, un "pezzo di strada" che tutti devono percorrere insieme, comunque la pensino. È difficile oggi non riconoscersi in un’etica dalla quale siano estromesse molte pessime pratiche che abbiamo visto all’opera e in cui, viceversa, si rinvenga molta più attenzione distributiva».
Tra gli economisti vede questa condivisione?«La "scatola" dell’etica non sarà riempita da tutti nello stesso modo, ma quasi tutti vorranno introdurvi almeno un certo numero di ingredienti comuni. Questa "scatola" è vista oggi sempre più come necessaria al funzionamento stesso dei meccanismi economici e non più come esigenza morale collaterale, successiva o separata».
La Chiesa può influire su un "risanamento" etico dell’economia?«Il pensiero della Chiesa è meno oscillante rispetto a tante valutazioni tecniche, scientifiche, ideologiche o politiche. Nella sua storia essa è arrivata gradualmente – e in alcuni casi con un certo ritardo – a comprendere il valore dell’economia e del mercato, e quando l’ha fatto ha piantato paletti giustamente esigenti. Se la mia lettura dell’enciclica è corretta, adesso però la Chiesa non suggerisce affatto di gettare il mercato alle ortiche, come sarebbe facile e demagogico fare, e come nel dibattito economico molti hanno fatto. La Chiesa ha una maggiore stabilità: ha impiegato tempo a riconoscere certi valori, non mi sembra voglia liquidarli in modo affrettato solo perché sono diventati meno popolari».
Il Papa non liquida il mercato, certo, ma propone condizioni perché si metta al servizio l’uomo...«Trovo rincuorante che la Chiesa occupi questo terreno collocandosi su un livello "alto" e sottraendosi alla polemica divisiva tipica di altri temi. C’è una parte della società che segue con interesse quello che la Chiesa fa, e che sentiva il bisogno di questa enciclica. Noto da parte della Chiesa, in particolare, una visione di profondo rispetto per la politica, che essa chiama alla sua vera dignità. Ecco: vedere il Papa che chiama la politica a onorare la missione e la responsabilità che le competono in uno scorcio di storia così complesso mi apre il cuore. Mentre, devo dire, il cuore mi si chiude quando vedo certi politici conclamare la propria adesione a valori sostenuti dalla Chiesa nell’intento principale – si ha a volte l’impressione – di recuperare consenso presso i cittadini».
Da studioso, come giudica il Benedetto XVI "economista" della «Caritas in veritate»?«Il Papa riconosce l’importanza dell’economia, la necessità di un inquadramento rispetto ai valori e al governo dei fenomeni, la sua "non totalità": penso a quella che definisce "economia del dono", un significativo passo conoscitivo, non un’aspirazione generica ma l’osservazione di una categoria che si va fortemente sviluppando. In questi anni abbiamo assistito a due fatti contraddittori: lo sviluppo di fenomeni estremi nel mercato, in forme a volte incontrollabili, insieme a sviluppi inattesi, come il rapido affermarsi nelle coscienze di nuove sensibilità quali quella ambientale, o il radicarsi di un volontariato diffuso e motivato. L’"economia del dono" si è sviluppata moltissimo: se l’economia non potrà mai basarsi integralmente sul dono, deve tuttavia tenere in attenta considerazione questo spazio che è in grande crescita. E che fa capire a noi studiosi dell’
homo oeconomicus come ci sia anche un uomo che funziona diversamente».