«Camminava in modo molto leggero, piegato in avanti, un ciuffo di capelli che cadeva sulla fronte. Nella sua faccia si leggeva una strana assenza, come se fosse dentro di sé, e nello stesso tempo vedesse tutto intorno». Questa era l’andatura del giovane Wojtyla, testimoniata dalle sue più antiche alunne polacche. Ma don Karol, ordinato a Cracovia il 1° novembre 1946, mosse i primi passi da sacerdote proprio in questa Roma che oggi, gremita di pellegrini, festeggia la sua beatificazione.Wojtyla visse a Roma tra il novembre ’46 e il luglio ’48, studente di teologia all’Angelicum, la Pontificia Università S.Tommaso d’Aquino. E allora in questa mattina di oltre sessant’anni dopo proviamo a ripercorrere i suoi giovani passi. Passi affascinati e attenti, giacché, scrisse egli stesso molti anni dopo, il rettore del seminario di Cracovia nel congedarlo gli aveva detto che la teologia si può imparare anche altrove, ma un sacerdote a Roma deve «imparare Roma stessa».Imparare dalle chiese, dalle catacombe – imparare dalle pietre segnate da duemila anni di fede.Dunque don Karol parte da Cracovia; ha 26 anni e quindici giorni appena di sacerdozio.In
Dono e mistero racconterà: «Salii sul treno con grande emozione. Per la prima volta uscivo dalle frontiere della mia patria.Ci fermammo a Parigi (...). Ne ripartimmo ben presto: giungemmo a Roma negli ultimi giorni di novembre».Com’era Roma nel 1946? Povera, le case senza riscaldamento, poche auto, pochi mezzi pubblici, era una fortuna possedere una bicicletta, ha raccontato l’altro giorno all’Angelicum il cardinale Jorge Mejìa, forse l’ultimo compagno rimasto di quanti studiarono teologia con Wojtyla. In questa Roma ancora convalescente dalla guerra, don Karol prende provvisoriamente alloggio al Collegio internazionale dei padri Pallottini, in via dei Pettinari. Via dei Pettinari è una vietta corta e stretta dietro a Campo dei Fiori, che sbuca davanti a Ponte Sisto, sul Tevere.Oggi l’ingresso di quel collegio non c’è più. Invece sulla piazzetta affacciata al fiume c’è la Casa generalizia dei padri Pallottini. «Il portone della nostra casa è stato spostato – spiega il vicerettore, padre Weis – fino al ’58 era in via dei Pettinari. E Papa Wojtyla infatti quando venne da noi lo notò: "Io entravo da un’altra porta", disse».Giri attorno al vecchio palazzo, cercando di immaginare. Certo don Karol si affacciò dal Ponte Sisto sul Tevere, che scorreva verdastro e placido come ora. E, alzando lo sguardo, a nordovest incontrò la sagoma del cupolone, stagliata alta sui tetti. E non resistette al desiderio di vedere, finalmente, San Pietro: «La prima domenica dopo l’arrivo – scrisse – mi recai nella Basilica per assistere alla solenne venerazione di un nuovo Beato da parte del Papa. Vidi di lontano la figura di Pietro XII portato sulla sedia gestatoria».Si inoltrò, in quei primi giorni, nelle stradine del quartiere, costellate di immagini di Madonne inscurite dal tempo? E largo Librari, con la chiesa di Santa Barbara e la piazzetta dove i bambini giocano a palla, era davvero molto diversa da adesso? Certo, non c’erano queste auto, e le turiste in shorts. Ma il mercato di Campo dei Fiori, era molto diverso da questa mattina?(«Camminava in modo leggero, piegato in avanti, come se fosse dentro di sé eppure vedesse tutto attorno»).Dopo un mese in via Pettinari, Wojtyla si trasferisce al Collegio Belga, in via del Quirinale 26. È un palazzo poco oltre le mura del Quirinale, antico. Oggi ospita studi legali e uffici, ma sul portone, in alto, c’è ancora scolpito 'Collegium belgicum'. Parte delle finestre si affacciano su un bel giardino di palme e alberi secolari. Forse anche quella di don Karol? Come deve essere sembrata rigogliosa, a lui nordico, la primavera romana. Anche a lui, come ai pellegrini polacchi calati in massa oggi, si arrossava il viso, sotto al sole di Roma?Accanto all’ex Collegio Belga c’è la chiesa di Sant’Andrea al Quirinale, piccolo gioiello barocco disegnato dal Bernini. Per Wojtyla, scriverà egli stesso, era la chiesa di tutte le mattine, prima di andare all’Angelicum. Con la luce d’oro che, oggi come allora, scende dalla cupola, e il crocifisso ligneo, in una cappella, più alto di un uomo. E con la tomba di un giovane santo polacco, Stanislao Kostka, che morì nel noviziato gesuita adiacente nel 1568. (Singolare come, nella grande Roma, il destino di Wojtyla si sia incrociato proprio con quella di un santo polacco).Poi, uscito di chiesa, per andare all’Angelicum don Karol doveva percorrere via del Quirinale e via XXIV Maggio. Agevole discesa, per le sue gambe allora veloci. Ogni mattina si affacciava sul piazzale del Quirinale dove sventolava il tricolore della giovane Repubblica; e di nuovo, sullo sfondo, la cupola di San Pietro – come guardasse quel prete ragazzo, come se lo stesse aspettando.L’Angelicum, ex convento domenicano del XVII secolo, si apre in un bel chiostro fiorito; aule austere e corridoi silenziosi, dove ti insegue il chiocciare dell’acqua da una fontana. L’aula in cui don Karol discusse la tesi è intatta, con la grande lavagna nera sormontata dal crocifisso. Nel chiostro, che profumo viene dall’aranceto: lo stesso profumo che, ha raccontato il cardinale Mejìa, don Karol amava così tanto che strappava le foglie e se le strofinava sulle dita, annusando l’odore dolce del Mediterraneo.Compagno schivo, di poche parole, che amava passeggiare solo nel giardino; e sempre si soffermava davanti al grande ulivo secolare che ancora meraviglia i visitatori, perché dai suoi grossi rami si dipartono – incredibile – un tralcio di palma, uno di fico e uno di alloro. L’«albero miracoloso», lo chiamava don Karol, che ogni giorno andava a trovarlo.Restano qui all’Angelicum, di lui, le pagelle ingiallite –
eminenter o
valde bene, tutti buoni voti nei corsi rigorosamente in latino.Resta il libretto di Carolus Wojtyla, matricola C 905, e la tesi su san Giovanni della Croce, che all’epoca non pubblicò, perché non aveva i soldi. La foto, in cui sembra più severo, o timido, di quando lo abbiamo conosciuto; come se, invecchiando, il viso gli fosse diventato più misericordioso. Quel viso che oggi ci guarda sorridente da tutti i muri di Roma. Quasi a dire a noi, uomini normali venuti a Roma oggi, che c’è davvero una strada per vivere per sempre, oltre la morte, oltre il tempo. Sessantatré anni dopo, una folla immensa ama ancora quel Papa: il giovane prete che camminava veloce, assorto, «come se fosse dentro di sé, e nello stesso tempo vedesse tutto intorno».