Francesco e le sue parole. Semplici, perché anche un bimbo le possa capire. Ma scelte, lo si capisce immediatamente, una per una; provenienti da una riflessione, e una teologia, profonda, e capaci per questo, ogni volta che le si rilegge o le si riascolta, di dire e significare qualcosa di più.Non cerca l’inedito, il Papa, cerca il senso, e di fare in modo che questo senso arrivi diretto.
Camminare, edificare, confessare, le tre parole chiave usate, nell’omelia della
"Missa pro Ecclesia" celebrata nella Sistina all’indomani della sua elezione per i «fratelli» cardinali, non delineano così solamente il suo programma, ma lo inseriscono direttamente nel cuore di quella che è la missione comune di tutti i credenti. Chiedendo a ciascuno il «coraggio, proprio il coraggio, di
camminare in presenza del Signore, con la Croce del Signore; di
edificare la Chiesa sul sangue del Signore, che è versato sulla Croce; e di
confessare l’unica gloria: Cristo Crocifisso. E così la Chiesa andrà avanti».Parole-bandiera, che non vogliono essere slogan di facile effetto, ma non vogliono allo stesso modo a essere facili da ricordare. Come quella parola,
povertà, che in questi cento giorni Francesco ha declinato in mille modi diversi, a partire da quella frase pronunciata nella sua prima udienza, riservata ai giornalisti di tutto il mondo – «Oh, come sogno una Chiesa povera e per i poveri!» – che non è l’invocazione all’utopia pauperista che qualcuno, o molti, hanno voluto leggervi, ma il richiamo a quello stile evangelico indispensabile per coniugare e rendere credibili, nei fatti, altre parole –
solidarietà, vicinanza, semplicità, umiltà, servizio – del suo straordinario vocabolario.Proprio a questo proposito, è impossibile non ripensare, per esempio, al discorso che Benedetto XVI, il 25 settembre del 2010, tenne durante l’incontro con i cattolici impegnati nella Chiesa e nella società a Freiburg im Breisgau. E così ci si rende conto di come, nella scelta assolutamente non casuale delle sue parole, Francesco continuamente rimandi al magistero dei suoi immediati predecessori, a sottolineare la continuità naturale, e rigorosa, con Wojtyla e Ratzinger. Quante volte, per esempio, abbiamo sentito la parola
misericordia uscire dalla bocca di Giovanni Paolo II? E quante volte papa Ratzinger ci ha ricordato, anche nelle sue encicliche, che essere cristiani vuol dire essere pieni di
gioia? E quante volte, l’uno e l’altro, ci hanno parlato dell’importanza del
custodire, il creato, tutto il creato, a cominciare dall’uomo, come oggi Francesco continua a fare con il suo insistente senso di urgenza?Ce ne sarebbero molte altre, di queste parole. Ma una ancora non può non essere ricordata. Ed è la parola
tenerezza, di cui, ha detto Francesco nella messa d’inizio pontificato, «non dobbiamo avere timore». Difficile pensare, nel modo di oggi, arrabbiato fino alla crudeltà, a una parola più efficace per descrivere dove sta la vera forza del cristiano.