Padre Stefano Zuin (Foto di Gianni Zotta)
Un uomo «con la valigia in mano, sempre pronto a partire». È il missionario nelle parole ma anche nella biografia di padre Stefano Zuin, 68 anni, comboniano di origine padovana, che dopo 38 anni di lavoro tra America Latina e l’Africa è ripartito sei mesi fa per una missione speciale: cappellano fra i 300 detenuti del carcere di Trento. Non ha tardato a rispondere sì quando l’arcivescovo Lauro Tisi gli ha chiesto di proseguire la sua presenza missionaria fra tanti africani, asiatici e latinoamericani che scontano la pena a Trento: «Sono i poveri e gli ultimi della nostra ricca Europa».
Padre Stefano, animatore vocazionale, collaboratore del Centro missionario diocesano e di Radio inBlu, non si stupisce del fatto che papa Francesco nel suo messaggio per la Giornata mondiale di oggi affermi che l’impegno missionario non è un ornamento della vita cristiana. «Chi conosce Gesù deve farlo conoscere agli altri», commenta con la stessa semplicità con cui ha parlato poco prima ai comunicandi di una parrocchia trentina, aggiungendo: «Conoscere Gesù vuol dire portare a compimento la propria umanità. Per me è stato così».
Ordinato sacerdote nel 1974, all’età di 25 anni, in diocesi di Padova, a ventotto anni è partito come fidei donum in Ecuador, dove ha operato fra gli afro-americani del vicariato apostolico di Esmeraldas, per dieci anni. Poi ha scelto di farsi religioso comboniano: nel 1987 ha iniziato il noviziato, dopo i primi voti, nel 1990, è partito per l’Africa e ha lavorato per 18 anni nel Malawi e Zambia. La sensibilità missionaria è innata o matura col tempo?. «È un dono di Dio, che semina attraverso le persone vicine: nel mio caso la nonna, il parroco, anche i miei genitori che vivevano la fede nell’umile lavoro nei campi e nell’attaccamento orgoglioso alla parrocchia.
Ma nello stesso tempo matura dall’ascolto della sua Parola e nelle esperienze della storia. In America Latina erano i tempi degli incontri ecclesiali di Medellin e Puebla e ho compreso il legame del Vangelo con i valori del Regno come la giustizia e la solidarietà, che ha prodotto tanti catechisti martiri». Dall’Africa, “polmone religioso dell’umanità” per descriverla con le parole di Benedetto XVI, dice di aver appreso ancora meglio il grande dono della vita e della ministerialità. «Ma la missione è la stessa ovunque. Annunciamo Gesù, non noi stessi. Chi annuncia se stesso, diceva il nostro Comboni, è il più grande asino del mondo». Ora nel carcere di Trento padre Zuin sa d’incontrare il volto di Gesù e s’impegna – sull’esempio del predecessore padre Fabrizio Forti – ad un ascolto attento dei detenuti e della loro sofferenza. «La loro vita mette in questione anche la mia: se fosse qui io? Come vorrei essere trattato? Cosa mi aspetterei dagli altri?».
Da qualche mese padre Zuin ha messo a disposizione anche i locali della sua comunità comboniana a 12 richiedenti asilo africani e pakistani coordinati dal Centro Astalli («Le nostre case religiose sono nate dalla carità della gente e oggi devono ritornare alla gente») con i quali prosegue un annuncio di umanità e fede. «A proposito di vocazioni – conclude – mi sembra che nella cultura di oggi talvolta manchi la materia primaria: c’è tanta passione per la natura e l’ambiente naturale, e va bene, ma c’è poca cultura per l’uomo. Che noi sappiamo essere immagine di Dio».