Papa Francesco alla Via Crucis del Venerdì Santo nel 2018 - Ansa Archivio
Quattordici meditazioni. E per ogni meditazione una storia. E dietro ogni storia una persona. La Via Crucis del Venerdì Santo – che quest’anno anziché al Colosseo, a motivo delle restrizioni per il coronavirus, si terrà in piazza San Pietro – nasce dal vissuto di chi è in carcere. E tocca nel profondo. «Quando, rinchiuso in cella, rileggo le pagine della Passione di Cristo, scoppio nel pianto – scrive ad esempio un condannato all’ergastolo rinchiuso nella carcere di Padova –. Dopo ventinove anni di galera non ho perduto la capacità di vergognarmi della mia storia passata. Mi sento Barabba, Pietro e Giuda in un’unica persona». Ma Gesù crocifisso e risorto è capace anche di entrare a porte chiuse nelle prigioni, così come fece nel Cenacolo. E proprio da quel detenuto arriva la conferma. «Quell’Uomo innocente, condannato come me, è venuto a cercarmi in carcere per educarmi alla vita».
Questa è una delle quattordici meditazioni che risuoneranno venerdì sera, a partire dalle 21. Sono state scritte da cinque detenuti, una famiglia vittima per un reato di omicidio, la figlia di un uomo condannato all’ergastolo, un’educatrice del carcere, un magistrato di sorveglianza, la madre di una persona detenuta, una catechista, un frate volontario, un agente di polizia penitenziaria e un sacerdote accusato e poi assolto dopo anni di processo. Raccolti dal cappellano del carcere padovano, don Marco Pozza, e dalla volontaria Tatiana Mario, i testi sono già disponibili sul sito Internet della Libreria Editrice Vaticana al link www.vaticannews. va/it/lev.html.
Un percorso per «accompagnare Cristo sulla via della croce, con la voce rauca della gente che abita il mondo delle carceri – si legge nell’introduzione – e per assistere al prodigioso duello tra la vita e la morte, scoprendo come i fili del bene si intreccino inevitabilmente con i fili del male».
Nella seconda Stazione i genitori di una ragazza uccisa scrivono: «Siamo vittime del peggiore dolore che esista: sopravvivere alla morte di una figlia». Ma il Signore li ha sorretti. «Lui ci invita a tenere aperta la porta della nostra casa al più debole, al disperato, accogliendo chi bussa anche solo per un piatto di minestra. Avere fatto della carità il nostro comandamento è per noi una forma di salvezza». Allo stesso modo Cristo è diventato punto di riferimento per il detenuto colpevole di omicidio della terza Stazione. «Mi sento la versione moderna del ladrone che a Cristo implora: «Ricordati di me!». Non pensare che al mondo esistesse la bontà è stata la mia prima caduta. La seconda, l’omicidio, è stata quasi una conseguenza». Non c’è solo il dolore di chi sta dentro.
Alla quarta Stazione la madre di un detenuto ricorda: «Il giorno dell’arresto l’intera famiglia è entrata in prigione con lui. Ancora oggi il giudizio della gente non si placa, è una lama affilata». Ma, aggiunge, «avverto la vicinanza della Madonna: mi aiuta a non farmi schiacciare dalla disperazione, a sopportare le cattiverie». L’aiuto può arrivare anche dalle persone.
Nella quinta Stazione un altro detenuto, a proposito del Cireneo, scrive: «Dentro le carceri Simone di Cirene lo conoscono tutti: è il secondo nome dei volontari, di chi sale questo calvario per aiutare a portare una croce; è gente che rifiuta la legge del branco mettendosi in ascolto della coscienza ».
E alla sesta una catechista conferma: «Asciugo tante lacrime, lasciandole scorrere: non si possono arginare le piene di cuori straziati. Spesso immagino: Gesù come asciugherebbe quelle lacrime? La strada suggeritami da Cristo è contemplare quei volti sfigurati dalla sofferenza, senza provarne paura, guardando oltre il pregiudizio». La Via Crucis accomuna spesso detenuti e familiari.
Alla settima Stazione un detenuto per spaccio confessa: «Sono caduto a terra due volte. La prima quando il male mi ha affascinato e io ho ceduto. La seconda è stata quando ho rovinato la famiglia».
A sua volta all’ottava la figlia di un ergastolano scrive: «Da ventotto anni sto scontando la pena di crescere senza padre, la sua mancanza è sempre più pesante da sopportare. Conosco le città non per i loro monumenti ma per le carceri che ho visitato».
Eppure proprio dalla disperazione può rinascere la speranza. Lo testimonia alla nona Stazione un altro detenuto. «È vero che sono andato in mille pezzi, ma la cosa bella è che quei pezzi si possono ancora tutti ricomporre ».
E alla decima Stazione un’educatrice del carcere ci spiega come: «A tratti i detenuti assomigliano a dei bambini appena partoriti che possono ancora essere plasmati. Percepisco che la loro vita può ricominciare in un’altra direzione, voltando definitivamente le spalle al male».
Nell’undicesima Stazione un sacerdote accusato ingiustamente parla del suo calvario: «L’accusa era fatta di parole dure come chiodi, il patimento si è inciso nella pelle. Sono rimasto appeso in croce per dieci anni: è stata la mia via crucis popolata di faldoni, sospetti, accuse, ingiurie». Ma «appeso in croce il mio sacerdozio si è illuminato».
E nella dodicesima un magistrato di sorveglianza ricorda che «una vera giustizia è possibile solo attraverso la misericordia che non inchioda per sempre l’uomo in croce, ma si offre come guida nell’aiutarlo a rialzarsi». In un certo senso è la stessa opera che da un altro versante compiono il religioso volontario della tredicesima Stazione («Il carcere continua a seppellire uomini vivi: sono storie che non vuole più nessuno. A me Cristo ogni volta ripete: “Continua, non fermarti. Prendili in braccio ancora”») e l’agente di polizia penitenziaria dell’ultima Stazione: «In carcere un uomo buono può diventare sadico. Un malvagio potrebbe diventare migliore. Il risultato dipende anche da me. Non posso limitarmi ad aprire e chiudere una cella».