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Sanguis martyrum semen cristianorum”. La storia della Chiesa prova la verità di questo detto di Tertulliano, il sangue dei martiri è il seme di nuovi cristiani. L’ultima dimostrazione è nella beatificazione dei due martiri padre Mario Vergara missionario del Pime (1910-1950) e il suo catechista Isidoro Ngei Ko Lat (1918-1950), martirizzati il 25 maggio 1950 e beatificati oggi, 24 maggio 2014 nella Cattedrale di Aversa (Caserta) dal card. Angelo Amato, prefetto della Congregazione dei Santi. Della loro e del martirio si è già scritto molto. Isidoro è il primo cristiano nato in Birmania che diventa Beato e questo è un forte segno per la Chiesa di Myanmar e specialmente per la diocesi di Loikaw e dello Stato di Kayah, che nell’ultimo mezzo secolo ha conosciuto un incremento straordinario di battezzati e di catecumeni. Il Myanmar è uno Stato federale e Kayah è lo stato dei cariani (karen), l’etnia evangelizzata dai missionari del Pime che sono in Birmania dal 1867. Oggi, su circa 300.000 abitanti, i cattolici battezzati sono 80.000, circa il 25% della popolazione in gran parte animista (il culto degli spiriti), ma anche appartenenti a varie Chiese e sette protestanti.In tutta la Birmania, su 53 milioni di abitanti, i cattolici sono circa 500.000, meno dell’1%. Quale il segreto di questo movimento di conversioni a Cristo fra le tribù? Lo spiega la storia delle missioni in Birmania, che hanno avuto un glorioso passato (1721-1830) di cui furono protagonisti i Barnabiti italiani, inventori e stampatori dell’“
Alphabetum Barmanum” e avevano convertito alcuni membri della famiglia reale dell’Impero birmano che si estendeva anche all’attuale Thailandia. La missione moderna inizia nel 1834 con i Missionari di Parigi, che si fermano all’etnia dominante del paese, i birmani, di religione buddista. Ma i birmani sono circa il 60% degli abitanti, gli altri appartengono e numerose etnie tribali di religione animista. Quando il Pime entra in Birmania nel 1867 all’inizio della colonizzazione inglese, vista l’impossibilità di convertire i buddisti, i missionari attraversano il fiume Sittang ed entrano nelle regioni tribali, contro il parere del governatore inglese che dice: “Se passate il fiume, noi inglesi non possiamo più proteggervi”. Il capo missione, padre Eugenio Biffi, risponde: “Ma noi siamo protetti da Gesù Cristo”. Così nasce la Chiesa del Myanmar, anche oggi formata in gran parte dalle popolazioni primitive che allora vivevano ancora in un tempo preistorico. Attraverso le scuole e l’assistenza sanitaria delle missioni cristiane (anche protestanti), oggi i tribali hanno acquisito una buona promozione sociale e una forte identità delle loro etnie e culture.I missionari del Pime hanno evangelizzato la Birmania Orientale fondandovi una arcidiocesi e cinque diocesi (su 16), che complessivamente hanno poco meno della metà dei cattolici del paese; e hanno portato nel paese le due principali congregazioni femminili: le Suore della Riparazione (presenti dal 1895) e le Suore di Maria Bambina (dal 1912). Importante anche il metodo missionario: non aspettare in città i tribali che volevano convertirsi (come facevano i missionari protestanti), ma mettere missionari residenti sul posto nei punti più importanti di quei vasti territori; e poi visitare i villaggi, fermarsi a mangiare e dormire, vivere con la gente più umile, promuovere il loro sviluppo umano anche attraverso il Vangelo, insomma donare veramente la vita per il popolo, che infatti rispondeva bene. Nei primi50 anni della missione in Birmania, l’età media in cui morivano i missionari italiani era sui 35 anni, morivano denutriti e di stenti perché non avevano soldi per acquistare cibo sostanzioso. Quando il Beato padre Paolo Manna visita la prefettura apostolica di Kengtung (1928), dice a mons. Bonetta: “Se ti muore ancora un missionario sotto i trent’anni, non ti mando più nessuno”. Il povero Bonetta, anche lui strapelato, visitando i missionari quando ne trovava uno troppo magro, lo mandava per un mese nella casa episcopale “perché là potrai mangiare meglio”. E il Beato Clemente Vismara, che allevava galline e anitre, quando veniva a trovarlo un confratello gli dava da bere due uova sbattute con un po’ di zucchero, come ricostituente; una volta, un suo fratello gli manda un scatola di dolci italiani e lui ringrazia ma scrive: “Non mandarmene più, è meglio che io dimentichi che esistono queste dolcezze”.Ho scritto la storia del Pime in Birmania (
Missione Birmania, Emi 2007) e leggendo le lettere dei missionari, spesso mi sono commosso fino alle lacrime, quando raccontano eroismi oggi per noi impensabili come fatti ordinari della loro vita, avendo anche visitato più volte quelle montagne e foreste ai confini con Laos, Cina e Thailandia. Le conversioni a Loikaw e nelle Birmania orientale vengono dai cinque martiri del Pime e dai tanti martiri fra i preti, i catechisti e i laici indigeni, ma anche da questo metodo di fare missione, vivere fra il popolo. Papa Francesco non lo conosce, altrimenti l’avrebbe citato nella sua
Evangelii Gaudium, dove insiste molto sulla povertà della Chiesa e dei pastori del gregge di Cristo.