Dallo studio della Parola di Dio al dono di sé come martire a Dachau. Padre Giuseppe Girotti, domenicano, sabato pomeriggio 26 aprile ad Alba sará proclamato beato con una solenne celebrazione presieduta dal cardinale Severino Poletto arcivescovo emerito di Torino, delegato del Papa. La cerimonia inizia alle 15.30 con la partenza del corteo dal Seminario diocesano che sfocerà in Cattedrale. La grande macchina organizzativa é pronta per accogliere quasi 4000 persone. «Negli ultimi otto mesi – racconta Roberto Cerrato uno dei responsabili dell’organizzazione – ogni settimana ad Alba e dintorni ci sono state delle iniziative per far conoscere la vita, le opere, il pensiero di questo grande padre domenicano». Nel corso della beatificazione sarà portata in Cattedrale, solo per questa giornata, una reliquia di padre Girotti, ora custodita nella Chiesa di San Giuseppe, nella "sala dei giusti" a lui dedicata. (Chiara Genisio)Girotti, il martire di DachauPadre Giuseppe Girotti morì a Dachau il 1° aprile 1945, domenica di Pasqua. Quando la notizia giunse nella baracca 26, riservata agli ecclesiastici, una mano sconosciuta scrisse sul suo giaciglio: «San Giuseppe Girotti». La Chiesa, riconoscendolo "beato", conferma ufficialmente la fama di estrema fedeltà al Vangelo che gli fu subito riconosciuta da chi ebbe la ventura di conoscerlo nell’inferno di Dachau e di apprezzarne le eccelse doti umane e cristiane.La gente di Alba, che lo sente e ama come "suo" santo, sa che nelle sue vene e nel suo spirito sono circolati, fin dalla nascita i profondi valori che da generazioni si tramandavano come i beni più preziosi, in tempi in cui le terre non erano così generose come oggi. Gli educatori domenicani hanno poi sapientemente innestato la loro azione su un terreno già fertile e ricco.E tuttavia padre Girotti non può essere ridotto a un santo stereotipato tipo le "figurine Panini": egli si presenta come un "uomo" dai forti tratti di carattere e profondamente figlio del suo tempo, ma parimenti completamente dedito allo studio della Parola di Dio ed alla pratica della carità; il tutto nella ricerca, di una sintesi vitale, tra umanità e Vangelo, tra studio e impegno, tra fede e vita.La virtù di padre Girotti non ha potuto improvvisarsi eroica nei sei mesi di internamento a Dachau: era stata preparata e forgiata fin dagli anni dell’adolescenza e della giovinezza, nei quali si affinava il suo desiderio di conoscere la Bibbia, insieme all’edificazione di un equilibrio umano non scevro di contrasti con superiori forse più attenti alla "lettera" che allo "spirito".Certo egli percorreva già negli anni giovanili itinerari di conformazione al Vangelo che rinveniva nel comandamento della carità la palestra privilegiata in tempi difficili e confusi. Infatti non si è tirato indietro di fronte agli immani problemi e alle drammatiche sfide con cui la Provvidenza l’ha posto a confronto, né ha considerato il male imperante come destinato a vincere per sempre. Pur consapevole della piccolezza della sua persona e dell’impari confronto tra il bene che gli era possibile e le atrocità del campo di Dachau, non ha esitato a fare la sua parte di bene. Come d’altronde in precedenza, all’inizio della persecuzione contro gli ebrei, non aveva avuto dubbi sulla parte dalla quale schierarsi; né da giovane frate aveva ritenuto indegno di un intellettuale votato allo studio e all’insegnamento della Sacra Scrittura mescolarsi con i "poveri vecchi" di Torino, ai quali portare il suo buonumore ed un servizio tanto modesto quanto sincero.Egli non si è arreso di fronte ai vari "inizi" davanti ai quali è stato posto dalla Provvidenza: le sfide nuove, i paesaggi inediti, le frontiere dell’umano che hanno manifestato in Dachau la drammatica sintesi e l’atroce culmine non l’hanno trovato impreparato o riottoso: il Vangelo è stato la sua bussola, la Parola di Dio il suo faro, il comandamento della carità la sua stella polare.Il "martirio" di padre Girotti non è stato un frutto spontaneo, ma il risultato di una maturazione spirituale che ha bruciato le tappe senza negarsi tortuosità e dubbi., ma rinvenendo presto, nelle Beatitudini prese sul serio, la "strada stretta" da cui non più deflettere. Per questo la sua figura, che manifesta una forte carica di "modernità", testimonia la capacità della fede di fare fiorire anche nei terreni più ostici il fiore della carità e la palma del martirio, "specie botaniche" di cui i nostri tempi hanno un bisogno estremo. Oggi probabilmente saremmo più indulgenti di fronte alle "intemperanze" del giovane frate (peraltro non scevre di istanze evangeliche in anticipo sui tempi) che gli sono costate sanzioni ed emarginazione; non ci manchi il coraggio di prendere sul serio la sua testimonianza di "martire della carità". Perché «tutti i santi muoiono d’amore. Moriranno anche di qualche infermità, ma essenzialmente muoiono d’amore. Essi giungono ad una pienezza, ad una sovrabbondanza, ad un arricchimento tale d’amore, che ad un dato momento questo amore non può più essere contenuto nei limiti della persona» (A. Paoli). Si tratta di una "misura alta" della vita cristiana con cui, non possiamo evitare di confrontarci, con la fiducia di poter contare sulla sicura intercessione del nuovo beato.Il luogo della sua sepoltura non ci è noto; per la superficialità di un portinaio anche le sue "reliquie" - la cintura di cuoio, un piccolo scapolare e un fascio di manoscritti, che un sacerdote reduce da Dachau portò a Torino due mesi dopo la sua morte - sono andate perdute. Ma non gli scritti biblici precedenti l’internamento, che documentano egregiamente il livello della sua conoscenza della Sacra Scrittura e l’efficacia del suo insegnamento; soprattutto non la sua testimonianza oggi più di prima additata come esemplare per tutti i credenti. Neppure, provvidenzialmente, un’omelia in latino sull’unità dei cristiani tenuta, due mesi prima della morte, ai confratelli durante la quasi giornaliera Messa delle quattro del mattino, prima dell’inizio di giornate di inenarrabili fatiche, umiliazioni e violenze. Essa, significativamente costruita attorno alla "preghiera sacerdotale" recitata da Gesù nell’Ultima Cena (cfr Gv 17), si propone, a modo di prezioso testamento, come alta sintesi della sua spiritualità, ormai del tutto conformata a Colui che, per amore del Padre e degli uomini, «spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo (…), umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte» (Fil 2,7-8). Giunto allo stremo delle forze fisiche e minato da mali irrimediabili, non si trincera dietro un tanto inappellabile quanto motivato giudizio sui suoi tempi; parla infatti della «nostra infelicissima Europa», di «questo immane crimine qual è questa guerra scellerata», del «gravissimo momento della storia», della «nostra sventurata età», di «questo nefando caos che è sotto i nostri occhi». E tuttavia, lungi dall’atteggiarsi a vittima e pretendere compassione, chiama perentoriamente in causa la responsabilità sua (e di tutti i credenti), guida la sua fede a condividere, con accenti non dissimili da quelli che abbiamo imparato ad apprezzare in papa Francesco, i più alti sentimenti del Padre nostro, le più esigenti istanze del Vangelo: «Il Padre celeste rimetta i nostri debiti, perdoni la nostra tiepidezza nel promuovere e difendere la fede, tutte le mancanze di carità (che portano la fede a raffreddarsi), ogni atteggiamento farisaico che si gloria della esteriorità o piuttosto delle formule ortodosse della fede e tanto è lontano dallo spirito, dai desideri, dall’imitazione del Salvatore nostro. Dio ci liberi da quella pericolosissima tentazione per cui avviene che coloro che hanno la verità, la verità non la vivono, quelli che hanno un aspetto sano e lo spirito vivificante, con la loro vita siano di scandalo a quelli che sono fuori». In un periodo in cui le uniche leggi vincenti sembravano quelle della violenza e della prevaricazione, egli, alla scuola delle Beatitudini, oppose la forza della mitezza e della misericordia, la condivisione della sorte dei perseguitati, la testimonianza di una carità estrema. Nonostante fosse ormai devastato dai mali di una schiavitù bestiale, il suo spirito continuava a sorreggere una più che umana forza d’animo, la sua mente a coltivare pensieri divinamente elevati, in una parola tutta la sua vita, in condizioni impossibili persino da immaginare, era diventata Vangelo vivente; davvero, accettando di essere ogni giorno crocifisso con Cristo, non era più lui che viveva, ma Cristo stesso (cfr Gal 2,20).Non solo i sacerdoti, cui è destinata questa omelia, ma tutti i cristiani possono trovare in essa motivo di edificazione, di più, un programma di vita evangelica, come si evince dalla conclusione: «Con la preghiera, con una vita vissuta santamente, con studio della verità si compia il nostro terreno cammino sacerdotale. Infatti, se saremo attenti ascoltatori della parola del Vangelo e ubbidienti ai precetti della Chiesa, cioè, se con l’opportunità della dottrina e con la verità diamo forza a quello che è debole, consolidiamo quello che è spezzato, correggiamo le cose sviate, guariamo le divisioni e dispensiamo il cibo di vita in cibo di eternità per nutrire la famiglia dei credenti, e ciò facendo siamo riconosciuti in questo perseveranti: conseguiremo la gloria del Signore come dispensatori fedeli e amministratori utili e saremo posti sopra tutti i beni, cioè saremo collocati nella gloria di Dio, al di sopra della quale nulla ci può essere di meglio».A soli 40 anni si potevano applicare a padre Girotti le parole di san Paolo: «Il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno» (2Tm 4,6-8). Oggi abbiamo la certezza che questo è avvenuto: ne gioiamo, ringraziando il Signore ed assumendo, con una responsabilità cui l’esempio di Padre Girotti continua ad imprimere un forte impulso, tutti i nostri compiti di fratelli nella fede e cittadini del mondo.