Da ventotto anni il 17 gennaio, vigilia dell’inizio della Settimana di preghiera per l'unita dei cristiani, si celebra in Italia su iniziativa della Cei la Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo fra cattolici ed ebrei. Un appuntamento che si inserisce «in un periodo storico in cui si vede da una parte il moltiplicarsi di iniziative di dialogo (e non solo con il mondo ebraico) ma dall’altra una sorta di chiusura pregiudiziale, sempre in agguato, sempre pericolosa e soprattutto sempre assolutamente sterile», spiega il direttore dell’Ufficio nazionale Cei per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, don Cristiano Bettega, nella presentazione del sussidio 2017 alla Giornata.
Lo scorso anno si era concluso l’itinerario decennale sul Decalogo che aveva fatto da filo conduttore alla Giornata. «Per i prossimi cinque anni abbiamo scelto di proporre alla comune riflessione un brano preso da cinque libri biblici che nella Bibbia ebraica costituiscono le cinque “megillot” (i rotoli): Rut, Cantico dei Cantici, Qoelet, Lamentazioni, Ester», annuncia il vescovo di Frosinone-Veroli-Ferentino, Ambrogio Spreafico, presidente della Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo. Proprio il Libro di Rut è al centro di questa 28ª Giornata per il dialogo ebraico-cristiano. Il sussidio che illustra i contenuti dell’iniziativa è un confronto a due voci fra il vescovo Spreafico e il rabbino capo di Milano, Alfonso Arbib, presidente dell’Assemblea dei rabbini d’Italia.
Il piccolo Libro di Rut prende il nome dalla donna moabita e quindi straniera per gli israeliti che per la sua tenera pietà verso la suocera meriterà di essere accolta a pieno titolo nel popolo eletto e di far parte dell’albero genealogico di Davide e, quindi, di Cristo. «Il Libro di Rut fin dai tempi dei Gheonim si usa leggere durante la festa di Shavuot, cioè la festa del Mattàn Torà (il dono della Torà)», sottolinea il rabbino capo di Milano. Il Libro si presenta come una storia ricca di esempi edificanti di vita familiare fondata sulla fedeltà e sulla mutua dedizione che ha per protagonista la donna andata in sposa al figlio di una betlemita, Noemi, che era aveva lasciato la terra d’Israele per una carestia ed era emigrata a Moab. «Il midràsh – ricorda il rabbino – sostiene che la carestia non avesse colpito la sua famiglia che era molto benestante e importante. Ciò che induce a emigrare è il timore di doversi assumere la responsabilità di occuparsi delle persone colpite dalla carestia di dover dar da mangiare o un tetto sotto cui ripararsi ai poveri. Dal punto di vista della norma legale la scelta è legittima, ma il midràsh chiede di andare al di là della norma stretta». Secondo il vescovo, siamo di fronte a «una storia tanto attuale che ci mette a contatto con il dramma dell’emigrazione di tante donne e uomini che fuggono dai loro Paesi non solo per le guerre, ma anche per la povertà e l’impossibilità di provvedere al futuro delle loro famiglie».
Rut, divenuta vedova, resta accanto alla suocera Noemi una volta che quest’ultima decide di tornare nella sua terra. «La segue quando ritorna a Betlehem povera, umiliata– sottolinea Arbib –. E si identifica completamente con la suocera e con il suo popolo convertendosi all’ebraismo e dicendo: “Il tuo popolo è il mio popolo, il Tuo Dio è il mio Dio”». Si tratta di un esempio di chèsed, di opere di bene che si fanno vicinanza e aiuto. Tiene a precisare Spreafico: «Rut compie un atto di misericordia, non lasciando sua suocera alla solitudine e a un destino incerto. Questo attira su di lei la benedizione del Signore e la benevolenza degli uomini. Gesti di amore aprono la vita di queste due donne a un futuro pieno di speranza. Dio sembra guidare la storia di queste due donne verso l’accoglienza e l’inclusione».
Fondamentale nel libro è l’incontro fra Rut e l’israelitico Boaz. «Con chèsed – osserva il rabbino – si comporta Boaz che permette a Rut di spigolare nel suo campo nonostante sia straniera. Ma un atto di chèsed ancora maggiore lo fa sposando Rut e dando una discendenza alla casa di Noemi». Per Speafico, emerge la preoccupazione di «non esclusione», di «integrare anche lo straniero, assieme alle altre persone deboli economicamente e socialmente, come gli schiavi, l’orfano e la vedova». E chiarisce: «Il testo nasconde una tradizione biblica interessante che apre alla solidarietà anche con coloro che non sono parte del popolo di Dio». Così, conclude il rabbino capo di Milano, «il Libro di Rut ci indica una delle direzioni in cui il dialogo si può sviluppare: quella della solidarietà verso il prossimo che può essere comune alle varie religioni ma soprattutto all’ebraismo e al cristianesimo che vengono da una radice comune e che hanno nel principio “ama il prossimo tuo come te stesso” un elemento essenziale».