sabato 30 aprile 2022
Un nuovo libro raccoglie le catechesi dedicate da papa Francesco al patrono della Chiesa universale. La prefazione di Poretti: lo conobbi facendo il presepe con mio padre...
Giacomo Poretti

Giacomo Poretti - Ansa

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Pubblichiamo qui la prefazione di Giacomo Poretti, attore e scrittore, al testo di Papa Francesco “Un padre e un custode”. Catechesi su San Giuseppe (Libreria Editrice Vaticana, disponibile da questa settimana). Il testo raccoglie le dodici riflessioni che il Pontefice ha tenuto dal 17 novembre dello scorso anno al 16 febbraio scorso e dedicate al padre putativo di Gesù. É nota la profonda devozione che Bergoglio ha sempre avuto verso lo sposo di Maria: davanti alla sua stanza tiene una statua di Giuseppe dormiente al quale affida intenzioni e richieste di preghiera che gli giungono da tutto il mondo. Nel testo ora pubblicato sono raccolte le varie meditazioni nelle quali Francesco ha delineato la figura di Giuseppe nelle sue principali caratteristiche e dimensioni: l’uomo giusto e sposo di Maria, uomo del silenzio, il migrante perseguitato e coraggioso, il padre putativo di Gesù, … Proponiamo qui la testimonianza di Giacomo Poretti come approfondimento nel giorno della festa di san Giuseppe lavoratore.

Ho conosciuto san Giuseppe che avevo cinque anni. II mio papà è arrivato con lo scatolone dalla cantina, la mamma ha cominciato a urlare dicendo che per prima cosa bisognava ricoprire con la carta di giornale il mobile dove si sarebbe fatto il presepe. Messo in salvo il mobile, il papà ha iniziato: le prime cose erano le montagne, le quali magicamente comparivano dopo aver avvolto con l’apposita carta, verde e marrone, le scatole delle scarpe; le dune del deserto il papà le faceva con la sabbia del gatto, il laghetto con il vetro dello specchio da barba; poi c’è stato l’anno che hanno inventato il “domopak” e finalmente siamo riusciti a fare anche le cascate: avevamo la parete tutta ricoperta di alluminio e il prete quando è venuto a benedire ha chiesto cos’era, io ho risposto «le cascate del Niagara».


Nel testo di Poretti che introduce le riflessioni papali
l’importanza del presepe per la fede familiare
e il ricordo affettuoso del papà
che per realizzare la Natività
usava le scatole della scarpe

Il mattino successivo il papà cercava le sue scarpe per andare al lavoro e si accorgeva che le aveva avvolte dentro la montagna del presepe, allora amaramente si rendeva conto che gli toccava andare in giro fino all’Epifania con i sandali aperti dell’estate: forse è per quel motivo che al mio papà durante le feste natalizie veniva spesso il raffreddore.

Poi era il momento di andare a staccare il muschio che cresceva sulla corteccia dell’albero del vicino (all’epoca esistevano ancora gli alberi e il muschio non lo vendevano ancora in cartoleria), e lo si stendeva attorno al paesello arroccato sulla montagna; il mio papà tendeva a costruirlo con quello che aveva e inevitabilmente il risultato era un insieme di epoche e stili diversi: una baita, un castelletto, una villetta a schiera, un grattacielo fatto con il “Lego”.

Finalmente gli animali: mettevamo galline, tacchini e pecorelle e al massimo uno o due cammelli: io volevo mettere i dinosauri e per questo motivo litigavo con mia nonna che diceva che erano estinti e io urlavo che non era vero, e infine arrivava la grotta. Le statuine il papà, e la mamma, le svolgevano dalla carta di giornale dove erano state avvolte per tutto l’anno: il bue, l’asino, e lì per la prima volta ho visto san Giuseppe con la barba e la sua faccia triste. Io chiedevo chi fosse e la mamma, omettendo imbarazzanti spiegazioni, rispondeva: «Il papà di Gesù bambino». Poi mi mostrava la statuina della Madonna e mi diceva: «E questa è la sua mamma!». La mia di mamma invece avrebbe voluto aggiungere qualcos’altro, poi si guardava negli occhi con il papà e decideva che non era ancora il caso di avventurarsi nella storia dell’Immacolata Concezione, l’avrebbe fatto fra due o tre presepi. Nell’ultimo pacchetto di carta c’era Gesù bambino che aveva indosso solo un panno che gli lasciava le braccia e le gambe nude; io avrei voluto sistemarlo subito nella mangiatoia, ma mamma e papà tentavano di spiegarmi che nasceva tra venti giorni, a Natale; io replicavo che «se era già lì non aveva bisogno di nascere ». Alla fine si arrivava a un compromesso e la statuina di Gesù bambino sarebbe rimasta al caldo nel cassetto delle calze fino al giorno di Natale. Siccome quello che c’era da dire in quel momento era delicato e importante, prendeva la parola il papà: «Gesù bambino… è il figlio di Dio……!».

«…figlio di Dio ? Papi, ma sei fuori…? Ma non era san Giuseppe il suo papà…?».

Mi ha sempre intenerito e interrogato la figura di san Giuseppe, ho passato un sacco di tempo a domandarmi perché nessuno andava da lui a offrirgli un bicchiere di spumante dato che era appena diventato papà.

E poi questo bimbo, di chi era figlio per davvero? Era di Giuseppe o…?

Poi crescendo e frequentando l’oratorio, ho potuto apprendere dal Catechismo la vera natura di quelle statuine e il grado di parentela tra loro. Eppure la figura di Giuseppe mi ha sempre in un qualche modo inquietato, perché da lui e da sua moglie, Maria, ha preso sostanza la natura faticosa e talvolta misteriosa della fede.

Ho pensato alla paura che doveva aver sperimentato quando la sua sposa gli ha comunicato che aspettava un bambino ed entrambi sapevano che non veniva da loro: la vergogna, l’umiliazione, il timore del tradimento, il dileggio, la rabbia, il desiderio di vendicarsi.

E invece ha resistito, non si è fatto accecare dalla rabbia, ha aspettato, ci ha pensato. È andato a dormire.
Con quel peso atroce sul cuore e sulla testa.

E andando a dormire si è concesso il lusso di sognare: un uomo che potrebbe anche essere sfiorato dalla furia omicida perché la moglie aspetta un bambino non da lui, lui, l’uomo con la tristezza più grande che esiste al mondo, sogna.

Aspettare, dormire, sognare.

È qua che avviene il miracolo, l’ennesimo.

L’angelo del Signore lo ha tranquillizzato e come solo nei sogni può accadere gli ha spiegato che lui, Giuseppe, ma anche tutti i papà del mondo che sono venuti prima di lui e verranno dopo di lui, sono papà perché Dio lo ha voluto e lo permette, perché per quanto le mamme e i papà si diano da fare per fare i bambini, loro, le mamme e i papà non saprebbero proprio da che parte cominciare per pensare e fare un bambino.

Quando l’angelo gli ha parlato così Giuseppe si è tranquillizzato.

Al risveglio avrà guardato la sua promessa sposa negli occhi e, senza il bisogno di parlare, ha iniziato la sua giornata: sapeva finalmente quale era lo scopo della sua, della loro vita.

Come dice papa Francesco nelle meditazioni presentate in questo suo libro, Giuseppe è chiamato a custodire la sua famiglia, perché nel custodire vi è il significato più importante dell’esser genitore: «Custodire la vita, custodire lo sviluppo umano, custodire la mente umana, custodire il cuore umano, custodire il lavoro umano. Il cristiano è – possiamo dire – come san Giuseppe: deve custodire. Essere cristiano è non solo ricevere la fede, confessare la fede, ma custodire la vita, la vita propria, la vita degli altri, la vita della Chiesa».

La vicenda di Giuseppe mi ha lasciato un altro insegnamento fondamentale: che la sua famiglia, lui e sua moglie, è quella che ha detto un doppio sì a Dio, entrambi hanno permesso al Creatore di entrare in noi e di custodire questo sacro mistero.

In fondo penso che tutti possiamo lasciarci “ingravidare” dalla presenza di Dio e che tutti possiamo custodire questo Sì.

Scrivere una prefazione per il Papa è un peso più pesante di san Giuseppe quando si coricò quella sera; spero che in sogno un angelo mi dica che Francesco ha avuto benevolenza per i miei balbettii.

Ah, dimenticavo: il 7 gennaio, nel tardo pomeriggio, quando tornavo dall’asilo, il presepe non c’era già più, tutto era stato inscatolato per l’anno successivo, il mobile ritornava a essere agibile e il mio papà finalmente guariva dal raffreddore: aveva potuto rimettersi le scarpe.


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