«Non sprechiamo quello che abbiamo seminato», è la raccomandazione di
don Michele Falabretti, responsabile del Servizio nazionale Cei di pastorale giovanile e “anima” di questa XXXI edizione della
Gmg che si è tenuta a
Cracovia. Un
Falabretti molto provato dalla notizia della morte per meningite a Vienna di una diciottenne originaria di Roma.
Don Falabretti, molti si erano assicurati contro gli atti di terrorismo, e invece spunta la morte fulminante per malattia… Come la paura di attentati non ha fermato i giovani, arrivati da tutto il mondo, così la tragedia della ragazza romana c’impone di misurarci con la realtà delle nostre vite. Casa Italia non aveva cancelli né guardie all’ingresso, Cracovia è stata ed è una città sicura, e poi la morte di questa ragazza, per la quale preghiamo, ci mostra tutta la nostra fragilità. Ci ricorda che incontrare l’altro resta la cosa più importante, oggi e sempre, ma non siamo immuni, non abbiamo una protezione speciale.
Casa Italia con il suo enorme cortile, il caffè e gli educatori ricorda da vicino un oratorio: è questo il concetto replicato in Polonia? Nel nostro Paese talvolta facciamo fatica a costruire legami, quando siamo all’estero cerchiamo qualcosa che ci tenga insieme e ci unisca. Lungo le scale correva una tela con una frase di Pavese, tratta da
La luna e i falò, in cui dice che un Paese ci vuole, non fosse altro per poter andar via e scoprire alla fine che te lo porti dentro. Come l’oratorio, quando è la casa di tutti.
È stato difficile seguire la squadra che ha gestito Casa Italia?Non ho rispettato l’abitudine di creare un gruppo con ragazzi di tutte le regioni. Ai diciotto educatori, che già si conoscevano, né io né don Gero (ossia don Calogero Manganello, assistente di studio del Servizio di pastorale,
ndr) abbiamo dovuto suggerire cosa fare e non li ho mai visti abbandonare la “postazione”. Hanno creato un ottimo clima con la collaborazione dei volontari adulti, come quello che s’è vantato: «A sessant’anni ho fatto la mia prima Gmg». Non mi era mai successo che qualcuno fosse tanto grato per aver lavorato di brutto.
Anche per i vescovi c’è stato un cambiamento… In effetti più d’un pastore mi ha detto: «Ci siamo stupiti che le domande dei ragazzi fossero così dense e così forti», quindi se le portavano dentro da lungo tempo. E alcuni vescovi, parole loro, si sono ritrovati «su autostrade dove passeggiare e dire in maniera informale le cose che ci stanno a cuore». Insomma, meno spiegazione dall’alto, e maggiore sintonia.
Quanto tempo fa è iniziata la preparazione del progetto? Nel luglio del 2014 io e don Gero abbiamo visitato Cracovia cercando di percorrerla con gli occhi dei ragazzi, poi ci siamo trovati con il resto dell’organizzazione internazionale e tra animatori, volontari e studenti dell’Istituto di arti grafiche della San Vincenzo di Bergamo, che hanno curato l’allestimento degli spazi, abbiamo potuto sempre contare su 45 persone.
Quanti giovani sono passati in una settimana da Casa Italia? Mi hanno detto che avrei dovuto installare un contatore... Ci sono stati pomeriggi in cui abbiamo avuto 1.500 ragazzi in contemporanea. In mezza giornata sono stati fatti 1800 caffè, secondo me almeno il 15 per cento dei 90mila italiani iscritti è passato da noi.
Tornati in Italia, che cosa devono fare sacerdoti ed educatori adulti in parrocchie e movimenti? Mi piacerebbe che nelle singole regioni ci fosse l’occasione di rivedere i percorsi fatti insieme. Non ho sentito moltissimi incaricati che stavano a Cracovia, non perché non avessero incontrato difficoltà, ma perché si erano attrezzati per risolverle da soli. Per questo immagino che tornando a casa troveranno il modo migliore per dare continuità al cammino pastorale intrapreso. Chi invece arriva all’ultimo momento, senza essersi informato e preparato, difficilmente potrà far fruttare l’esperienza polacca. Il nostro ufficio continuerà a garantire la formazione degli educatori, ma le scelte pastorali vanno compiute all’interno delle singole comunità locali. La pappa pronta non serve a nessuno. Il diario del pellegrino era fatto per metà di pagine bianche, sono stati i ragazzi a riempirle.