mercoledì 22 novembre 2023
Il dialogo con Liliana Segre diventa un volume della San Paolo dedicato all’impegno di accompagnare i giovani nella crescita: «Senza negare i limiti e gli ostacoli, testimoniamo loro la speranza»
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Pubblichiamo un estratto dell’intervento dell’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, dal libro La memoria che educa al bene edito da San Paolo.

Se un insegnante è scontento di come vive e della persona che è diventata, potrà insegnare un po’ di storia, di matematica e di geografia, ma non può insegnare a vivere sentendo che la sua vita è poco gratificante. Se io adulto sono così poco contento di essere vivo, non potrò che avere un influsso scoraggiante, o addirittura dannoso, sulla crescita dei giovani a me affidati.

Rivolgo quindi una domanda a me stesso e a tutti gli adulti: siamo contenti di vivere, di avere delle responsabilità, di esprimere noi stessi nelle nostre relazioni e nei nostri impegni sociali?

Farei poi un ulteriore passo avanti. Mi sembra che oggi sia molto diffuso tra i genitori, e più in generale tra gli adulti, un atteggiamento di inconsapevole impoverimento delle prospettive future dei ragazzi.

Provo a precisare la mia sensazione con degli esempi concreti. Quando i genitori sono presenti e hanno dei mezzi, essi li pongono a disposizione dei loro figli: raccomandano ai figli di andare a scuola, e scelgono la scuola migliore possibile; apprezzano molto l’impegno dei figli nello sport, e pagano perché possano svolgere attività di questo genere in diverse modalità e ambienti; non appena i figli, nella loro bella singolarità, mostrano di avere qualche talento, insistono con loro nell’impegnarsi e nel cercare di realizzarlo al meglio, e sono disponibili, in questo caso, a sacrifici, anche per mandare i figli a studiare all’estero o a partecipare a concorsi e a cogliere opportunità. In tutto questo, molti genitori partecipano con convinzione alla competizione di una società che sembra premiare solo i migliori, quelli che riescono, che si affermano e a volte addirittura si impongono. Insomma: gli adulti si presentano ai giovani come coloro che li spingono sempre avanti e lo fanno con una certa energia. E tuttavia, i giovani di oggi si domandano sempre più: «Sì, avanti, ma verso dove? A quale futuro volete che partecipiamo?».

Qui si apre un tema che mi sembra addirittura drammatico: che il futuro sia immaginato come una sfida terribile, anche se inevitabile. A questa visione è sottintesa l’idea che il presente sia negativo, perciò diciamo ai giovani: «Guarda, oggi le cose vanno male, ma in futuro, se ti impegni, ma solo se ti impegni molto, vedrai che potrebbero forse andare meglio. Non sappiamo come, ma bisogna che ti dia da fare per sfuggire al male presente, senza alcuna garanzia, ovviamente, per il futuro, che anzi appare a noi per primi incerto e irto di difficoltà».

Da qui a comunicare il messaggio: «Le cose oggi vanno male, ma in futuro possono anche andare molto peggio» poco ci manca. Attenzione: non sto dicendo che facciamo male a raccomandare ai giovani di studiare, di imparare le lingue, di sviluppare passioni e sogni. Dico però che se questo invito, spesso venato da una certa ansietà, non si accompagna a una visione radicalmente positiva della vita, a mio avviso anche arricchita da una fiducia che abbia dimensioni spirituali e capacità di affidamento al mistero bello e grande del vivere, esso contribuisce ad appesantire le prospettive dei ragazzi. Non credo, a questo proposito, di potermi stupire quando le statistiche ci dicono che c’è un’altissima percentuale di giovani che né studia, né lavora, né cerca lavoro.

Di fronte a queste situazioni, si invoca giustamente l’aiuto dello psicologo e dello psichiatra e ci sono, per fortuna, educatori che immaginano percorsi per tirar fuori di casa queste persone, spesso con risultati positivi, di ripresa del cammino. Ma rimane il problema: chiunque di noi si mette a correre solo se ha una meta, cioè se c’è una direzione in cui andare, un obiettivo desiderabile, un futuro che merita di essere vissuto. Se noi adulti procuriamo il necessario, se ci preoccupiamo di creare condizioni di crescita favorevoli, ma non abbiamo una speranza da condividere, come faranno i nostri figli a camminare con convinzione e in pace?

Rispetto a questa esigenza, don Milani era e rimane un esempio importantissimo. Era un educatore perché aveva una visione a proposito del presente e a proposito del futuro. Aveva idee profetiche, coraggiose, anche scomode, su come era organizzata e come agiva la Chiesa, su come era strutturata la scuola, su come era impostata la società, che riteneva fosse dominata da un potere autoritario che sapeva, secondo lui, nascondersi bene e andava per così dire “smascherato”, offrendo ai giovani gli strumenti per farlo. Stando con lui, i giovani scoprivano che c’era un motivo per studiare e per imparare e che c’era uno scopo per la propria vita. Imparavano prima di tutto a esprimersi, a parlare, perché solo così avrebbero potuto essere protagonisti del cambiamento, e lo capivano. Don Milani li invitava a prendere posizione, perché, spiegava, c’era un potere da abbattere e un sistema da scardinare: un’impresa per uomini e donne forti!

Oggi anche le prospettive più sincere e i più grandi desideri di cambiamento hanno un aspetto incerto, fumoso, davanti al quale si rimane come paralizzati. Credo invece che l’educatore debba e possa essere colui che sa bene che ci sono situazioni difficili, che ci riguardano e persino che ci danneggiano, ma che esiste una speranza, un futuro per cui lavorare con fiducia. Che esiste una terra promessa.

Altrimenti restiamo fermi a un «Sì, forse ce la possiamo cavare» e non abbiamo energia, né entusiasmo, né motivazioni credibili. Altrimenti il futuro ci appare come una minaccia. E in tutto questo vedo certamente una possibilità che si apre davanti a chi crede, perché le promesse di Dio non vengono mai meno. E non si tratta, con esse, di raccontare una favola, di credere in utopie irrealizzabili, ma di accogliere una vocazione che ci rende responsabili di noi stessi e quindi del futuro.

Il futuro non sarà né migliore né peggiore di adesso: sarà come lo faremo. Ecco perché tirar fuori i propri talenti, ecco perché impegnarci al meglio delle nostre possibilità, ecco per cosa investire le nostre risorse e il nostro tempo.

Quando trasmettiamo ai giovani la passione di essere costruttori di futuro, li liberiamo dal timore di essere invece vittime del flusso inesorabile della storia.

E c’è un’ultima cosa, la terza, che voglio dire a proposito di questo tema dell’educare, che ovviamente ha molte dimensioni e occasioni, rischi e potenzialità. Ed è che io credo fermamente che noi siamo in cammino verso una Terra promessa, ma non come una massa che avanza in qualche modo, trascinata da un leader che ci porta chissà dove, ma come gente che è chiamata per nome.

Questo richiamo è personale e denso di significato. È Dio che mi dice: «Mario, io ho stima di te e mi aspetto del bene da te». È in forza di questa vocazione che nessuno di noi è un numero e nessuno di noi è una presenza qualsiasi. Siamo autorizzati ad avere stima di noi stessi: se questa vita mi chiama, se questa promessa mi interpella è perché io non sono uno dei tanti.

In questo clima e con questo sguardo, con questa capacità di ascolto di una voce rivolta a me come persona unica e preziosa, scopro di non essere al mondo per farmi servire dagli altri, ma esisto perché ho la responsabilità di mettere a frutto i miei talenti. La Terra promessa che voglio per me e per tutti non verrà se io non darò il mio contributo: si raggiungerà anche grazie al mio impegno.

Non tutto, dopo aver detto queste cose, è risolto. Anzi: il compito di affrontare l’emergenza educativa comincia sempre di nuovo. Ma io credo che possiamo partire da questi tre punti di riferimento:

- l’essere adulti che non scoraggiano. Basta lamentarci: piuttosto chiediamo perdono, se ci sono stati degli errori, e da questa richiesta e da questo dono traiamo visione ed energia per andare avanti meglio;

– il vivere, noi adulti, una speranza che è la risposta a una promessa più grande di noi, e quindi il coltivare e trasmettere ai giovani di chi sa rendere ragione del proprio cammino, senza negarne i limiti, e sa spiegare perché vede un futuro e quale futuro vede;

– la consapevolezza che siamo chiamati per nome e non confusi in una massa e che proprio da ciascuno di noi, autorizzato a credere in se stesso, può nascere un pezzetto del futuro che desideriamo.

arcivescovo di Milano

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