Il linguaggio è il suo. Le immagini sono le sue, come quella efficacissima della Chiesa «scalza ». Ma per i contenuti, il papa Francesco che lunedì ha parlato ai vescovi italiani è pienamente nel solco della tradizione: quella del Concilio, nello spirito e nella lettera; e della Chiesa italiana. Con due testi fondamentali a fare da riferimento: il decreto conciliare
Presbyterorum ordinis (1965) e il documento Cei
Sovvenire alle necessità della Chiesa (1988). La premessa in entrambi i casi: l’eccesso di beni materiali è il segno di una fede debole, scarsa, forse perduta. «La rinuncia all’imponenza umana dei mezzi e delle risorse è infatti manifestazione e garanzia di totale fiducia nella forza dello Spirito del Risorto», rinuncia che è anche «segno e condizione di credibilità» (Sovvenire, 2). Di risorse c’è bisogno, ma qual è la giusta misura? È quella «che la propria missione richiede », ricorda la costituzione conciliare
Gau- dium et spes. La misura è la missione, e nient’altro. Il Concilio è chiarissimo, perfino drastico, almeno quanto Francesco: «I sacerdoti, senza affezionarsi in modo alcuno alle ricchezze, debbono evitare ogni bramosia e astenersi da qualsiasi tipo di commercio. Anzi, essi sono invitati ad abbracciare la povertà volontaria, con cui possono conformarsi a Cristo in un modo più evidente ed essere in grado di svolgere con maggiore prontezza il sacro ministero» (PO 17cd). Appunto: la povertà è condizione necessaria (non un accessorio opzionale) per l’annuncio del Vangelo. Ma c’è dell’altro. I padri conciliari ben conoscono le tentazioni tipiche della loro condizione, e così aggiungono: «(I sacerdoti) vedano di eliminare nelle proprie cose ogni ombra di vanità. Sistemino la propria abitazione in modo tale che nessuno possa ritenerla inaccessibile, né debba, anche se di condizione molto umile, trovarsi a disagio in essa» (PO 17e). Se poi accade che per circostanze fortunate un sacerdote si trovi ad avere più di quanto gli sia strettamente necessario, il Concilio invita a trattenere soltanto quel che serve «per il proprio onesto mantenimento », destinando il rimanente «per il bene della Chiesa e per le opere di carità» (PO 17c). La Chiesa «scalza» è dunque la Chiesa che così parla di se stessa mezzo secolo fa, né più né meno. Ed è la Chiesa che in Italia, con il nuovo Concordato, cambia drasticamente il modo di procurarsi le risorse, passando dal sistema beneficiale-congruale alle offerte deducibili e all’8 per mille: nessuna “garanzia”, nessun automatismo, ma un rimettersi ogni anno alle generosità dei fedeli e di tutti i cittadini.
Sovvenire, a proposito della povertà e dell’essenzialità del Concilio, non ha il timore di parlare della «nostra povertà di preti secolari» e invita più volte alla «libertà e fierezza»: «Se anche avvenisse di sperimentare momenti di difficoltà economica personale o comune, riscopriremo la gioia e la fierezza di condividere più profondamente la vita e le vicende delle nostre comunità nella buona e nella cattiva sorte» (
Sovvenire, 21). Il documento approvato dai vescovi italiani 26 anni fa enuncia principi ma è anche terribilmente concreto, come quando invita «ciascun prete e ciascun vescovo (...) di fare testamento (...), evitando così che i beni derivanti dal ministero, cioè dalla Chiesa, finiscano ai parenti per successione di legge (...), non temendo di “restituire” alla Chiesa stessa l’incommensurabile ricchezza spirituale da essa ricevuta anche destinandole i propri beni personali» (
Sovvenire, 22). Vivere scalzi; e morire ancora più scalzi.
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