Un milione di persone a Cracovia per l'addio a Giovanni Paolo II il 9 aprile 2015 - Ansa
E' tutta la Polonia che festeggia il “suo” Papa, ma Cracovia ha decisamente un motivo in più per vivere questi giorni come un tesoro suo e, insieme, di tutti. Il segreto della gioia, a ben vedere. Oggi l’arcivescovo è monsignor Marek Jedraszewski, l’inquilino della residenza episcopale con il celebre balcone dal quale Giovanni Paolo II si affacciò in tutti i suoi soggiorni nella città sulla Vistola che lo vide pastore per quasi 15 anni. La cittadella del Wawel è a due passi, in cima alla collina, col castello e la cattedrale a presidiare il grande fiume come sentinelle. Tutto qui parla del Papa santo, simbolo e cuore di un Paese tenacemente legato alle sue radici cristiane. Una terra e un popolo che è impossibile comprendere senza avvicinarsi con rispetto a ciò che ha forgiato quell’anima cristiana. Jedraszewski ha ricevuto il testimone dal cardinale Stanislaw Dziwisz, impronta vivente di Wojtyla. E oggi condivide con i lettori di Avvenire notizie e riflessioni.
Cracovia e la Polonia come vivono il centenario di Wojtyla?
Per ovvie ragioni le celebrazioni sono state fortemente limitate. Oggi c’è una Messa solenne a Wadowice, dove nacque e dove dieci giorni fa è iniziato il processo di beatificazione dei genitori, Karol ed Emilia. Domani, giorno del suo compleanno, nel Centro San Giovanni Paolo II qui a Cracovia viene celebrata una solenne Eucaristia alle 17, stessa ora della nascita, tra le 17 e le 18, che coincide anche con l’ora in cui il 16 ottobre 1978 fu eletto successore di Pietro e con quella del 13 maggio 1981 quando subì l’attentato. A queste celebrazioni sono presenti il cardinale Dziwisz, le autorità dello Stato con il presidente della Polonia, Andrzej Duda. Dal 14 al 16 giugno Cracovia e Kalwaria Zebrzydowska, il santuario mariano amato da Wojtyla fin dall’infanzia, ospiteranno l’assemblea della Conferenza episcopale polacca: per noi vescovi sarà l’occasione di un ringraziamento a Dio per san Giovanni Paolo II.
Che modello di umanità ha indicato alla Chiesa e al mondo?
Tutti ricordiamo bene le parole dell’omelia d’inizio pontificato, il 22 ottobre 1978 – «Spalancate le porte a Cristo!» – nella quale mise in luce le diverse realtà e strutture che avrebbero dovuto aprirsi al Signore. Parlò dei «confini degli Stati», dei «sistemi economici come di quelli politici» e dei «vasti campi della cultura, della civiltà, dello sviluppo». La cosa più importante è però il messaggio che Giovanni Paolo II ha sottolineato nella sua prima enciclica Redemptor hominis, nel 1979, dove dice che l’uomo non può comprendere se stesso fino in fondo senza Cristo. In altre parole, per capire l’essenza della natura umana e realizzarla più proficuamente possibile per noi e per gli altri dobbiamo rivolgerci a Cristo e al suo Vangelo. Gesù appare allora come un vero modello per la più profonda realizzazione di un autentico umanesimo.
L’arcivescovo di Cracovia Marek Jedraszewski - Ansa
La personalità umana di Karol Wojtyla fu eccezionalmente ricca…
Giovanni Paolo II non solo ha annunciato la verità sull’uomo in tutto il mondo ma l’ha anche realizzata nella propria vita. Recentemente ho scritto le meditazioni per la Via Crucis cercando di spiegare che la sua storia personale, dall’infanzia alla morte, è come inserita nelle quattordici stazioni percorse dal nostro Salvatore. Alla luce delle nuove ideologie, propagate oggi sull’uomo, il matrimonio e la famiglia, vediamo che il modello di umanesimo proposto da Cristo è necessario oggi a tutti noi. E’ così che come individui, comunità e nazioni possiamo guardare con fiducia al nostro futuro, vicino e lontano.
Cosa dice la figura di papa Wojtyla a chi non l’ha conosciuto, come i più giovani?
Giovanni Paolo II è stato davvero il Papa dei giovani: fu lui a dare inizio alle Giornate mondiali, loro volevano incontrarlo, gridavano «John Paul II, we love you!», Giovanni Paolo II ti amiamo. E lui sempre rispondeva: «Dovete amare Cristo, non me!». Fino ai suoi ultimi giorni per loro è stato sempre un vero padre, esigente, ma che li amava e che dal profondo del cuore voleva che fossero felici. Gli augurava la felicità che si può raggiungere solo se la vita è fondata su Cristo.
Nella diversità evidente di stili e personalità, vede una continuità tra Giovanni Paolo II e Francesco?
È vero, Francesco è diverso da Giovanni Paolo II, anche nel modo di svolgere il ruolo del successore di Pietro. Ciò che li collega sin dal primo momento dei loro pontificati è che tutti e due sono venuti a Roma «da un Paese lontano», ma senza alcun dubbio a unirli è l’idea della Divina Misericordia che entrambi proclamano. Si potrebbe dire che papa Francesco rappresenta in un certo modo l’estensione dell’insegnamento di Giovanni Paolo II attraverso la sua grande sensibilità verso le varie dimensioni della povertà umana, misurata non solo in base a ciò che si possiede. Ci sono molte manifestazioni della povertà spirituale che papa Francesco cerca di affrontare e di cui parla spesso, richiamandosi alle coscienze dei «potenti di questo mondo».
Cosa ricorda del suo legame con Karol Wojtyla?
L’ho conosciuto da cardinale, nel 1975, quando venni – giovane sacerdote – dalla mia PoznaÅ, a Roma per studiare filosofia alla Pontificia Università Gregoriana, e cominciai a vivere nel Pontificio Collegio Polacco in piazza Remuria, sull’Aventino. Il cardinale Wojtyla abitava con noi quando veniva nella Città Eterna. Durante i suoi soggiorni tutti i residenti della casa potevano ammirare la schiettezza delle relazioni personali, la semplicità e il calore umano del cardinale nei confronti di noi sacerdoti – studenti. Ma più di tutto ci colpiva la sua straordinaria devozione. Ogni sera, quando la maggior parte dei sacerdoti andavano a riposare, lui si recava in cappella per celebrare in solitudine la Via Crucis.
E quando venne eletto Papa?
Può facilmente immaginare il nostro orgoglio e la nostra gioia la sera del 16 ottobre 1978. Ero in piazza San Pietro insieme a decine di migliaia di persone, immerso nei grandi sentimenti di quella serata: la gioia dopo la fumata bianca sopra la Cappella Sistina, perché era stato eletto un nuovo Papa, poi il silenzio e la confusione al momento dell’annuncio del cognome, completamente sconosciuto alla maggioranza della gente, e infine il grande entusiasmo quando contro tutte le consuetudini precedenti non solo impartì la sua prima benedizione Urbi et Orbi ma iniziò anche a parlare alla folla in quel modo colloquiale.
C’è un episodio personale che le piace ricordare?
Nell’autunno del 1979 Giovanni Paolo II venne al Pontificio Collegio Polacco, da cui era uscito il 14 ottobre 1978 per il Conclave senza più tornare. Salutò calorosamente ciascuno di noi e, quando arrivò a me, mi chiese: «Quindi, Marek, come va il tuo Levinas?». Fui molto sorpreso che ricordasse come due anni prima gli avessi detto che stavo scrivendo la mia tesi di dottorato sulla filosofia di Emmanuel Levinas. Poiché la difesa della mia tesi era prevista per dicembre, gli risposi: «Santo Padre, tra un mese mi difenderò!». Subito mi disse: «Che significa “mi difenderò”? Tu devi vincere!». Queste parole hanno messo radici profonde dentro di me. Non le dimentico mai quando ho bisogno di affrontare le grandi questioni relative a Cristo e all’uomo, in particolare nel mio servizio di pastore dell’arcidiocesi di Cracovia.