Nel radiomessaggio di Giovanni XXIII trasmesso l’11 settembre 1962, un mese prima dell’apertura del Vaticano II, «c’è tutto, proprio tutto: Dio, divina rivelazione, obbedienza al Decalogo. Studio, lavoro, comunione di intenti. Unità e carità». Lo sottolinea in una lettera l’arcivescovo Loris Capovilla, che 50 anni fa era segretario di papa Roncalli.Un testo scritto proprio per ricordare il 50° di quel messaggio e per riflettere sull’eredità lasciata da Giovanni XXIII. «L’anno scorso – racconta il presule nella lettera firmata l’11 settembre 2012 – Gesù mi ha fatto incontrare un fratello nato trent’anni dopo di me: teologo, arcivescovo, cardinale. Abbiamo parlato
cor ad cor, entrambi prodigiosamente giovani, sereni e fiduciosi, in comunione col Papa, desiderosi di esserlo con tutti i cattolici, con le Chiese ortodosse, con le Comunità cristiane variamente denominate, con gli ebrei, con i musulmani, con i credenti di tutte le religioni, dacché "ciascuna conserva indubbi segni della primitiva rivelazione" (Giovanni XXIII, 2. II. 1963), ed anche con chi non crede o dubita o è distratto. Per noi – prosegue Capovilla – niente è più doveroso del testimoniare integra fede e proporne la conoscenza con umiltà, mitezza e bontà. Quale gioia mi ha procurato il commento del dotto prelato: "Io mi considero membro del popolo messianico in cammino, come recita il capitolo due della costituzione conciliare
Lumen gentium, chiamato a servire l’umanità, mettendo a disposizione tutto ciò che mi è stato dato: fede, cultura, teologia, sacerdozio, cardinalato». La conversazione, riferisce l’arcivescovo, ha toccato anche altri argomenti: «Abbiamo parlato anche di fedeltà e rinnovamento, di povertà, di sacrificio, di attesa di nuovi cieli e una nuova terra nei quali abita la giustizia». Si tratta di «stati d’animo» per i quali Capovilla si dichiara debitore nei confronti di quella «Chiesa che ha generato ed educato uomini e donne come Angelo Giuseppe Roncalli, e i molti che l’hanno preceduto e gli altri venuti dopo di lui, a iniziare dal venerato Paolo VI».«Papa Giovanni – ricorda il suo segretario – amava ripetere: "Tutto io ho ricevuto dalla Chiesa". Ora che le spoglie mortali del figlio della campagna bergamasca riposano accanto alla tomba del Pescatore di Galilea; ora che i luoghi legati al suo nome sono mèta di pellegrinaggio, tutto appare più chiaro». Capovilla ripercorre poi le tappe della vita di Roncalli; in esse, nota, «comprendiamo come, a poco a poco, egli si fosse liberato da ogni residua scoria di umane imperfezioni, di nulla preoccupato, se non di imitare Gesù Cristo, mite e umile di cuore».Il nome di Giovanni XXIII, sottolinea il presule, oggi «è pronunciato con riverenza in tutte le lingue; ed è caro a uomini di ogni paese, di ogni religione, persino e a volte ancor più a quelli che non credono in Dio Padre e nel Figlio suo, e forse ne soffrono». Una vera «benedizione» che «rende attenti agli insegnamenti di
Pacem in terris e del Concilio. Il documento magisteriale (l’enciclica) e il momento di grazia (il Concilio) scoprono carenze, denunciano ritardi, soprattutto spronano ad assumerne consapevolmente e pienamente le responsabilità individuali». Un vero invito a «farci esecutori del magnifico programma che questo Pontefice ha annunciato con tono profetico per convincere gli uomini ad amarsi come fratelli; a sentirsi, nella comunità dei popoli, membri di una stessa famiglia, che ha origine da Dio e a Dio tende; a costruire la casa di tutti su autentici valori umani e sul Vangelo».Ultima lezione lasciata da Roncalli, aggiunge l’arcivescovo – con l’auspicio che l’Anno della fede venga vissuto nello spirito indicato dall’eredità di Giovanni XXIII –, è il testamento spirituale che Giovanni Paolo II «esortava a rimeditare». Leggendolo, conclude Capovilla, si comprende che «il Vangelo non inganna e non delude chi osa prendere alla lettera – così fece il santo Pontefice – il discorso della montagna, dalla pratica delle beatitudini alla preghiera che strappa miracoli, dalla carità ardimentosa, che non si arresta dinanzi ad alcun ostacolo, sino alla prudenza più avveduta che costruisce sulla roccia non tanto e non solo per se stessi e per oggi, ma per i figli: cosicché il mondo di domani, lievitato dalla grazia e fecondato dalla sofferenza, sia più giusto, più libero, più umano».