Alla scoperta di un «popolo» originario del Mali, che dovette lasciare nel XV secolo. Nel villaggio il parroco arriva una volta al mese ma i fedeli si incontrano ogni giorno per la preghiera mattutina
Scrivo queste note sulle pagine del taccuino bagnate dalle gocce dell’acqua sollevate dalle pagaie che fanno avanzare la piroga che mi sta riportando sulla terra ferma dal villaggio di Nzulezu. Siamo partiti da Beyin, sulla costa ovest del Ghana, dovendoci sobbarcare un paio di chilometri a piedi lungo un canale che non ha abbastanza acqua in questa stagione secca per poter essere navigato dalle piroghe locali, scavate in un solo tronco, con assi di legno trasversali e basta.
Dopo venti minuti di navigazione, siamo giunti a un tratto di palude immerso nella foresta tropicale, assai suggestivo e ricco dei rumori della vita vergine. Un’altra mezz’ora abbondante ed è apparso il villaggio di Nzulezu, che conta circa 500 anime. È costruito in modo ingegnoso, ma ovviamente precario, con tronchi del diametro di una ventina di centimetri appena piantati nell’acqua, con delle tavole grezze a formare un pavimento, e poi con pareti drizzate grazie alle tante canne delle raphia palm, bastoni di cinque centimetri di diametro perfettamente dritti, di modo che possono essere allineati l’uno accanto all’altro creando un’ottima parete uniforme, almeno per queste zone calme e calde. Nell’abitato si scorgono palafitte inclinate su un lato, o addirittura collassate. Le si lasciano marcire del tutto, poi vengono sostituite, visto che i residui lignei solidificano il terreno.
La qualità della vita su queste palafitte è facile da immaginare: c’è una scuola elementare, si distinguono almeno tre cappelle - metodista, pentecostale e cattolica romana -, c’è una palafitta che funge da ambulatorio, ma il medico lo si vede solo ogni due o tre mesi, c’è un centro comunitario. È qui che incontro Kwse, un giovane uomo cattolico che mi racconta una storia affascinante: «Noi isoelle non siamo originari del Ghana, ma del Mali. Veniamo da Tumbuctu, al tempo del grande impero. Era scoppiata una guerra per la proprietà della terra, provocata da un’invasione di senegalesi. I nostri antenati non erano preparati alla guerra, erano degli agricoltori, quindi furono sconfitti. C’era anche una ragione religiosa, perché loro erano musulmani e noi cristiani. Sconfitti, i nostri antenati decisero di emigrare, dopo aver chiesto il parere del sacerdote della missione.
Sono quindi passati in Burkina Faso, e poi qui in Ghana, nel XV secolo. Dopo una lunga odissea sono arrivati da queste parti, vicino a Sekondi». «Ma ben presto arrivarono gli schiavisti – continua Kwse –, e quindi i nostri antenati cercarono di fuggire verso l’interno. Alla fine decisero di stabilirsi sulla palude, dove i soldati europei non osavano penetrare, perché erano infidi per via degli alligatori e della malaria. Dapprima vivevano su zattere di raphia palm, poi le innalzarono facendone delle palafitte, per rendere le loro abitazioni più sicure e salubri. Viviamo di pesca, caccia e agricoltura: siamo diventati anche pescatori e cacciatori, ma non abbiamo mai dimenticato le nostre origini contadine. Le sfide? L’istruzione, soprattutto, perché perfino la scuola elementare è minacciata, gli insegnanti sono pagati pochissimo dallo Stato. Siamo noi, vendendo un po’ di artigianato ai turisti, che paghiamo i maestri. E poi c’è il problema sanitario.
Ma in fondo siamo felici». Vengo attirato da un vocio proveniente da una delle vie laterali, in realtà è una semplice passerella traballante, che giunge nella cappella cattolica dedicata a Cristo Re. È in corso, evidentemente, la distribuzione di vestiti donati da qualche benefattore. Steven Ashua è il presidente della comunità: «Il parroco viene da Kendu una volta al mese, ma la nostra comunità, composta da circa 70 persone, è salda e continua a riunirsi ogni giorno, per la preghiera comunitaria e per l’aiuto reciproco. Ogni mattina ci riuniamo alle 6 per la preghiera comune, mentre la sera dalle 5 in chiesa comincia la funzione per tutti, molto partecipata, anche dai bambini, che dura da due a tre ore, con comunione della Parola, con scambio di testimonianze, con canti e recita di poesie, con la benedizione finale con l’Eucaristia».
Osservo il locale della cappella - sarà vasto un centinaio di metri quadri invaso da donne e bambini, c’è comunque qualche uomo, si stanno distribuendo i vestiti giunti la vigilia dalla capitale. Noto che la gente sceglie i migliori capi non per sé, ma per gli altri: «Fa parte della nostra tradizione – dice Veronica, una madre di famiglia con 4 figli – di occuparsi prima del benessere dei fratelli e poi della propria famiglia. In realtà tutti noi ne traiamo vantaggio, perché sono gli altri che pensano a noi». Robe da non credere. Steven conferma: «La vita qui a Nzulezu non è facile, le condizioni igieniche e strutturali sono precarie, come hai potuto vedere. Ma ciò ci spinge ad occuparci degli altri come di noi stessi».
C’è pure un’organizzata vita catechetica nella chiesa cattolica, in cui l’altare rimane sempre ricoperto da una candida tovaglia inamidata, «sostituita ogni giorno», come mi conferma una donna che funge da intendente di Steven. Justice, bel nome, è il catechista responsabile: «Abbiamo 8 bambini e bambine e 12 ragazzi e ragazze nei nostri due gruppi di catechismo. Ci riuniamo almeno tre volte alla settimana e seguiamo un programma dettagliato fornito dalla diocesi. Insegniamo il catechismo della Chiesa cattolica e leggiamo il Vangelo. Soprattutto, i bambini e i ragazzi vengono abituati a vivere quel che imparano.
Ogni riunione comincia con il racconto fatto dai bambini o dai ragazzi che spiegano come hanno messo in pratica quanto imparato nella riunione precedente». Steven e gli altri mi offrono una gustosa bevanda a base di cocco, un po’ salata a dire il vero: «La tua visita è una benedizione di Dio», mi dicono. In realtà la benedizione mi sembra che sia io ad averla ricevuta conoscendo questo sacramento di Cristo che è la comunità cattolica di Nzulezu.