martedì 27 dicembre 2011
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La cosa peggiore che possa capitare a un uo­mo è non avere una casa. Un luogo dove sentirsi accolto, valorizzato, amato. Per que­sto, quando ha pensato a un acronimo per l’im­presa che voleva avviare, ci ha messo anche l’ac­ca. Si chiama Los Angeles Habilitation House (Lahh) l’azienda non profit fondata da Guido Pic­carolo, un quarantenne italiano che ha avuto il coraggio di lasciare un posto sicuro e ben retri­buito alla Disney Company per lanciarsi in un’av­ventura che ha cambiato la sua vita e quella di tante persone che in questi anni sono state ac­colte nella Lahh. Dopo la laurea in economia e commercio all’U­niversità Cattolica di Milano, Piccarolo emigra negli Stati Uniti dove ottiene un brillante impie­go come analista finanziario alla Walt Disney di Los Angeles. Si interessa al mondo delle social enterprises, che sviluppano business con scopi fi­lantropici (una realtà molto diffusa nella società americana). Durante la visita a un’impresa che impiegava disabili a Portland, nell’Oregon, ri­mane folgorato da ciò che vede. «Me lo ricordo come fosse oggi: mentre passavo nelle linee di produzione, molti di loro si alzavano e mi ab­bracciavano, raccontando dell’orgoglio di poter lavorare e della gratitudine per avere trovato qual­cuno che gli aveva dato una mano, che aveva guardato con amore la loro umanità. Chiedo a John, il presidente dell’azienda: come faccio ad avviare una cosa del genere a Los Angeles? Risposta semplice e diretta, molto ameri­cana: “Scrivi un business plan ne­cessario per presentare allo Stato di California la richiesta per esse­re riconosciuto come impresa non profit che lavora con giovani disa­bili. Non preoccuparti di stabilire programmi particolari, piuttosto cerca almeno una persona con cui condividere l’ideale che hai”». Det­to fatto: Piccarolo ne parla con Nancy, una collega della Disney, insieme scrivono il business plan e insieme si li­cenziano tra lo stupore dei loro capi e dei com­pagni di lavoro: «Ma come, ve ne andate da un posto sicuro e ben pagato proprio adesso che in America c’è una crisi nera?». Nella primavera del 2008 nasce Los Angeles Ha­bilitation House, con lo scopo di creare lavoro per giovani con disabilità fisiche e mentali. «A fa­re le spese della crisi erano soprattutto i più de­boli. Anche adesso è così: in California su 546mi­la disabili che cercano lavoro, solo il 3 per cento lo trova. A questa realtà, negli ultimi anni si è ag­giunta la piaga dei reduci dalle guerre in Iraq e Afghanistan: su due milioni di militari impegna­ti al fronte, un terzo al ritorno in patria presenta sintomi di post traumatic stress disorder (Ptsd), un disturbo che sfocia in depressioni acute e spesso impedisce di trovare o mantenere il po­sto di lavoro. Uomini di 25-30 anni rientrano dal fronte dopo avere dato un pezzo della loro gio­ventù per la patria e trovano un Paese dove o­gnuno cerca di salvarsi dalla crisi e dove loro ven­gono guardati come un “ulteriore problema” da gestire». Succede così a Jamal, che nel 2009 rac­conta la sua storia in una lettera pubblicata sul Los Angeles Times. È un marine, tra i primi a soc­correre le vittime dell’attentato alle Torri Gemel­le, tra i primi anche a partire per il fronte irache­no. Ma quando torna dalla guerra non trova la­voro, non ce la fa neppure a pagare le bollette, nel­la mente s’insinua la tentazione del suicidio: «O­gni mattina quando mi alzo – scrive – ho bisogno di trovare una ragione per non uccidermi». «Leg­gere quelle parole è stato come ricevere un pu­gno nello stomaco – confessa Piccarolo –. Io che ogni mattina mi alzo dal letto con un grande de­siderio di vivere, non potevo restare indifferente davanti a uno che sperimenta l’opposto. Era il grido disperato di un uomo che cercava lavoro, ma anzitutto implorava l’abbraccio di un altro uomo, una speranza per vivere. La stessa spe­ranza che fa vivere me. Per questo, insieme a Nancy, siamo entrati in contatto con i centri sta­tali per il reintegro dei veterani e abbiamo co­minciato ad aiutare quelli come Jamal, propo­nendo periodi di training in vista dell’assunzio­ne, per svolgere lavori di pulizia o di tipo ammi­nistrativo».Li chiamano wounded warriors, sono uomini che portano dentro le ferite invisibili provocate dal­la guerra, che non sono più capaci neppure di fare cose apparentemente semplici, si isolano e vengono isolati, rimangono senza casa, soli, sul­la strada. E molti decidono di farla finita. Tra lo­ro il tasso di disoccupazione è superiore del 50% rispetto alla media, e le statistiche avvertono che ogni giorno 18 reduci dal conflitto iracheno si tolgono la vita. «Hanno bisogno di qualcuno che li rilanci nell’esistenza, che gli di­ca “tu vali, tu non sei determinato dalla tua difficoltà, il tuo limite può essere abbracciato da qualcuno che ti vuole bene”. E io capisco che soltanto l’abbraccio di Gesù, che io ho sperimentato sulla mia pel­le, può sollevare queste persone dalla trascuratezza e dall’abban­dono in cui sono precipitati. Un abbraccio che a Natale diventa più evidente, ma di cui abbiamo biso­gno tutti i giorni. Ho fatto l’anali­sta finanziario per 15 anni, non ho studiato psicologia, non sono nep­pure un esperto nell’integrazione lavorativa dei malati mentali. Semplicemente, accompagno queste persone nel loro percorso: insegno a fare le pulizie, ma insegnare un mestiere significa an­zitutto guardare tutta la loro umanità, prendere sul serio i loro bisogni, quel desiderio di felicità che tutti portiamo nel cuore. E aiutarli a riscoprire la loro dignità di persone, a riscoprire che c’è Qualcuno che gli vuole bene. In questo percor­so umano molti intuiscono che quell’esigenza di giustizia che li aveva mossi quando sono partiti per il fronte, quell’amore per la patria e per la li­bertà che sta nel Dna degli americani e che an­che loro hanno ereditato, può trovare risposta solo in Qualcosa di più grande della loro capa­cità. Il sogno americano, che tanto fascino con­tinua a esercitare e che gli attentati alle Twin Towers non sono riusciti a cancellare, può trovare compimento soltanto dentro una prospettiva più grande della potenza militare ed economica. I nostri wounded warriors l’hanno capito come l’ho capito io, perché insieme ne abbiamo fatto esperienza. E allora anche la disabilità non è più un limite, ma diventa la porta stretta attraverso la quale passare per nascere a una nuova vita. Per diventare uomini veri».
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