Immaginava le sue fondazioni come il riverbero dei due «polmoni» dell’unica Chiesa prima dello scisma del 1054. E, quasi fossero un ponte fra il monachesimo d’Occidente e quello d’Oriente, desiderava che unissero la dimensione comunitaria, propria della spiritualità benedettina, con il volto eremitico, ben più marcato dove si guarda a Est. È così che mille anni fa ha plasmato Camaldoli san Romualdo, il monaco-pellegrino originario di Ravenna che ha trascorso gran parte della vita promuovendo comunità monastiche e riformando eremi o cenobi.L’ultima sua «creatura» è nata sull’Appennino toscano in una proprietà donata dal vescovo Tedaldo di Arezzo. La radura si chiamava «campo di Maldolo». La storia non ha mai accertato chi o cosa fosse il Maldolo, anche se la tradizione vuole che si trattasse del conte proprietario del terreno. «A Camaldoli – spiega dom Alessandro Barban, priore generale della Congregazione camaldolese dell’Ordine di san Benedetto – Romualdo ha realizzato il suo ideale: quello in cui il tratto cenobitico si affianca all’esperienza del deserto, anche fisicamente». Ecco perché su questi monti i «figli» del santo si dividono fra eremo e monastero che distano qualche centinaia di metri.Oggi la famiglia religiosa celebra il padre fondatore nel giorno della sua memoria liturgica. È il cuore religioso delle celebrazioni per il millenario di Camaldoli che si concluderanno ad agosto. «Nel carisma di Romualdo – sottolinea dom Barban – sta tutta la sua attualità. La proposta spirituale che ci ha lasciato coniuga la ricerca personale di Dio con la fraternità». Un’intuizione che affonda le sue radici nella biografia del santo. «Romualdo veniva dalla città che era stata la capitale bizantina. Per questo, nell’ottica del fondatore, Camaldoli doveva essere lo specchio della piena unità della Chiesa in cui la tradizione latina andava a braccetto con quella orientale».Sarà per questa impronta iscritta nelle sue origini che la comunità è oggi luogo privilegiato di dialogo ecumenico e interreligioso, ma anche terrazza d’incontro con la cultura contemporanea. «Una spinta che Camaldoli ha promosso sulla scia del Vaticano II – afferma il priore –. Tre sono le direttrici: il dialogo con le altre fedi che qui si declina nei colloqui ebraico-cristiani e che nell’ashram in India porta al confronto con l’induismo; poi c’è il cammino ecumenico che ha necessità di concreti passi in avanti; infine, come dice la "Gaudium et spes", ecco il bisogno di scrutare la modernità o la post modernità che si esprime anche nell’accoglienza di chi non è credente». Quasi che in questo angolo di Toscana si apra un Cortile dei Gentili.Del resto la Regola di san Benedetto ha un suo perno nell’ospitalità. Ne è segno la foresteria del monastero dove i percorsi di preghiera si intrecciano con l’elaborazione culturale e l’impegno civile, come testimonia il «Codice di Camaldoli» redatto nel 1943. «Non può esserci dialogo se non si sperimenta lo stare insieme – dichiara dom Barban –. Riconoscersi e imparare a capirsi serve a superare le tensioni e i retaggi. Perciò il monachesimo di Romualdo non contempla la separazione dal mondo». E i camaldolesi vivono in mezzo all’umanità del proprio tempo. «La testimonianza dei monaci vuole suscitare una maggiore consapevolezza della fede. E tutto ciò avviene attraverso una spiritualità semplice ed essenziale, incentrata sulla Lectio divina e sull’incontro intimo con il Signore, seppur in un contesto comunitario».Il millenario è stato anche l’occasione per guardare ai lasciti del passato. «La Congregazione ha percorso metà della storia della Chiesa – chiarisce il priore –. Ha vissuto momenti radiosi, ma anche frangenti in cui abbiamo rischiato di scomparire, come con le soppressioni dell’epoca napoleonica e sabauda. Il Novecento è stato il secolo della ripresa. E il Vaticano II ha impresso un ulteriore slancio». Proprio la grande assise è oggi una bussola per Camaldoli. «Come ci hanno ricordato Giovanni Paolo II e Benedetto XVI – conclude dom Barban – il Concilio è stato un immenso dono alla Chiesa. Adesso occorre continuare a farlo nostro. Penso che papa Francesco ci aiuterà a rileggerlo sottolineando la centralità della liturgia, il dono della Scrittura e ponendo l’accento su una visione di Chiesa che è comunione, sobrietà e vicinanza all’uomo. Tutte istanze che Camaldoli sente nel suo intimo».