L'arcivescovo Bonicelli con Giovanni Paolo II alal presenza degli alpini
I suoi cento anni di vita coprono il pontificato di otto Papi. Ne ha conosciuti sette e collaborato con quattro. Per alcuni, Gaetano Bonicelli è un vescovo da record, per altri, semplicemente “don Tano”. Nato nel giorno di santa Lucia del 1924 a Vilminore di Scalve, ai piedi delle alpi orobie bergamasche, domani 13 dicembre sarà il protagonista di una festa che inizierà con l’Eucaristia nella parrocchia di Bonate Sopra, presieduta dal cardinale Mario Grech, Segretario generale del Sinodo dei vescovi. Assieme a lui, 24 tra cardinali e vescovi, circa 80 sacerdoti e 300 persone provenienti da ogni parte d’Italia, soffieranno insieme a monsignor Bonicelli le cento candeline durante il pranzo organizzato nel vicino oratorio.
A parte l’udito un po’ rallentato e le gambe “sifuline”, come dice lui stesso sorridendo, Bonicelli sprigiona forza e vitalità, ed è una miniera di ricordi e aneddoti.
Un secolo di vita. Come si sente alla vigilia di questo traguardo?
Compiere cento anni mi lascia quasi indifferente. Non l’ho desiderato io, l’ha voluto il Signore. Gli sono solo grato per essermi sempre stato accanto in questa vita un po’ selvaggia.
Selvaggia?
Sì, perché ho fatto di tutto. Sono stato seminarista negli anni difficili della guerra. Giovane prete tra i ragazzi dell’oratorio di Almenno San Salvatore. Di nuovo studente di Scienze politiche e sociali all’Università Cattolica e alla Sorbona di Parigi, dove mi mandò padre Gemelli in persona. Ho servito la Chiesa italiana nelle Acli e all’Ucei (ora Fondazione Migrantes), e la Conferenza episcopale come segretario aggiunto. Ero direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali quando nel 1975, arrivò la nomina episcopale.
È stato eletto vescovo da un santo, Paolo VI, e ha esercitato il suo ministero con un altro santo, Giovanni Paolo II. Che rapporto ha avuto con i Papi?
Più limpido e genuino rispetto a tanti altri (sorride, ndr). Credo di aver servito la Chiesa universale anche attraverso l’ubbidienza diretta ai successori di Pietro. Paolo VI mi assegnò la diocesi suburbicaria di Albano come vescovo ausiliare prima e poi come ordinario. Nel suo territorio si trova Castel Gandolfo, e Giovanni Paolo II venne nella residenza estiva tre giorni dopo l’elezione. “Posso darti del tu?” mi chiese. La vicinanza e l’intimità con lui sono un tesoro preziosissimo.
Nel 1981, papa Wojtyla la volle Ordinario militare.
Fu lui stesso a comunicarmelo, una sera dopo cena. Iniziai così il mio servizio ecclesiale alle Forze Armate, girando mezzo mondo, con visite sistematiche ai militari italiani nei paesi Nato, in Medio Oriente, in Libano. Gli stessi luoghi che ancora oggi sono teatro di tante sofferenze.
Otto anni come vescovo castrense. È davvero importante la presenza della Chiesa nel mondo militare?
Ne sono convinto. É un settore in cui la Chiesa può e deve esserci, e non certo per l’amore del grado. La cura pastorale deve raggiungere tutti, e anche nel mondo militare si può diventare santi. Basti guardare al corpo degli Alpini, a me carissimo: sono ben quattro i beati con la penna nera. Due cappellani, don Secondo Pollo e don Carlo Gnocchi, e due ufficiali, Teresio Olivelli e Luigi Bordino. Il ministero dei cappellani militari non si ferma solo a chi indossa la divisa, ma raggiunge anche le loro famiglie. Quante mamme sono sollevate a sapere che accanto ai loro figli e figlie c’è un prete!
All’età della pensione da Ordinario militare non è seguita quella da vescovo.
Proprio così. I generali di corpo d’armata, cui l’Ordinario è parificato, scadono al compimento dei 65 anni di età. Nel 1989 lasciai l’incarico. Dopo l’esperienza di una diocesi che è una circoscrizione personale, senza un territorio preciso, il papa me ne affidò una che è geograficamente ben definita: la Chiesa di Siena-Colle di Val d’Elsa-Montalcino.
Com’è stato il ritorno a un ministero pastorale più diretto?
Molto positivo, nonostante inizialmente i rapporti tra Chiesa e politica locale fossero un tesi. Ho compiuto due visite pastorali all’arcidiocesi, incontrando il popolo di Dio nella realtà in cui vive. Ho avuto anche l’occasione di organizzare eventi unici, che hanno vivacizzato la fede dei senesi, come il Congresso eucaristico nazionale nel 1994.
Arrivano i 75 anni, l’età in cui i vescovi diocesani presentano la rinuncia al Papa.
La trasmisi a Giovanni Paolo II nel 1999. Le rifiutò, dicendo al cardinale Re, che allora era in Segreteria di stato: “Bonicelli? Sta meglio di me. Che rimanga lì!”. E rimasi ancora due anni. Poi nel 2001 ho fatto ritorno nella mia diocesi di Bergamo. Da allora vivo accanto al Santuario di Stezzano, dove faccio ancora quello che posso per dare il mio contributo alla vita della Chiesa.
Guardando a questi cento anni, qual è il ricordo più vivo?
Le persone. Degli incarichi mi importa poco. Ho sempre cercato l’umanità in tutti. La stessa che vedevo nella mia mamma, quando da bambino mi affidava alla Madonna del Rosario. La stessa umanità che osservavo nel curato di Vilminore, don Virginio Daina. É grazie al suo esempio, semplice e autentico, che ho scelto di essere prete.
Da quando è diventato sacerdote, 77 anni fa, la Chiesa ha cambiato volto: in peggio o in meglio?
A prima vista si direbbe in peggio: fedeli in calo e vocazioni che scarseggiano. Ma in questi giorni ho fatto delle riflessioni: vedo più gente pronta ad aiutare gli altri. Vuol già dire essere cristiani.
Un pensiero che riassuma la sua vita?
Il motto episcopale che mi accompagna da quasi cinquant’anni: “Omnibus omnia factus”. Sono le parole di Paolo ai Corinzi: “mi sono fatto tutto a tutti”. É quello che cerco di fare da cent’anni.