Benedetta Bianchi Porro in un'immagine di repertorio. La giovane, morta non ancora 28enne nel 1964, verrà beatificata sabato 14 settembre a Forlì
«La beatificazione di Benedetta Bianchi Porro sarà una grande festa di popolo». Il vescovo di Forlì-Bertinoro, Livio Corazza, caratterizza così la grande celebrazione che si svolgerà di domani alle 10.30 nella Cattedrale di Forlì, presieduta dal cardinale Angelo Becciu, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, insieme al prossimo cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, allo stesso vescovo diocesano e ad altri 14 presuli, fra cui gli emeriti Vincenzo Zarri e Lino Pizzi, all’arcivescovo di Modena-Nonantola e amministratore apostolico di Carpi, Erio Castellucci, e al vescovo Giuseppe Zenti di Verona, (nella cui diocesi a Sirmione è morta Benedetta in Veneto). «Sarà una festa di popolo – spiega il vescovo Corazza – perché il popolo riconobbe la santità di Benedetta fin dalla sua morte, tanto che 50 anni fa il suo corpo fu collocato in una tomba nella chiesa della Badia di Sant’Andrea di Dovadola, la sua parrocchia natia, cosa che di solito si fa con la beatificazione». Ma perché Benedetta crea tanto interesse? «La sofferenza che lei ha vissuto – spiega Corazza – è un’esperienza umana e spirituale che riguarda tutti, credenti e non credenti, e soprattutto interessa come l’ha affrontata, con grande fede, lei giovane e ormai priva di tutti i sensi».
Per mettere in luce in modo tangibile queste sue caratteristiche, nelle prime file in Cattedrale saranno presenti 250 disabili e altrettanti giovani. Il vescovo romagnolo sottolinea che la santità di Benedetta non è un fatto isolato, ma è una caratteristica della «santità femminile forlivese», ricordando anche madre Clelia Merloni, beatificata nel 2018, e la missionaria laica in Kenya e Somalia Annalena Tonelli, uccisa nel 2005. Ma chi è la nuova beata? Nata a Dovadola nel 1936, nell’allora diocesi di Forlì, si trasferisce in seguito con la famiglia a Sirmione, provincia di Brescia e diocesi di Verona, iscrivendosi a 17 anni a medicina all’università statale di Milano, perché voleva diventare medico e andare in missione. Sostiene quasi tutti gli esami, ma non riesce a laurearsi, perché colpita da neurofibromatosi o morbo di Recklinghausen, una forma tumorale (da lei stessa diagnosticata) che le fa perdere lentamente l’uso di tutti i sensi. Malgrado quella prospettiva tragica Benedetta non si abbandona alla disperazione, ma affronta la vita con lucida consapevolezza e sconcertante serenità, tanto che i numerosi amici che la frequentano fino alla fine e parlano con lei che non può più farlo attraverso la madre, vanno per consolarla e se ne tornano consolati. Muore a Sirmione nel 1964, dopo aver dato un’umanis- sima testimonianza di pienezza di vita.
I suoi pensieri, le sue lettere e i suoi diari sono stati raccolti in libri e tradotti in tutte le lingue, ecco perché è conosciuta in tutto il mondo. Don Andrea Vena (che scrive in questa stessa pagina) ha pubblicato gli Scritti completi editi da San Paolo. Un esempio? Al giovane Natalino, che le scriveva di soffrire per una grave malformazione fisica, Benedetta rispondeva il 1 giugno 1963, sei mesi prima di morire: «Anch’io come te ho ventisette anni e sono inferma da tempo, sorda e cieca. Un morbo mi ha atrofizzato, quando stavo per coronare i miei lunghi anni di studio: laureanda in medicina a Milano. Però nel mio calvario non sono disperata. Io so, che in fondo alla via, Gesù mi aspetta. Nel letto, che ora è la mia dimora, ho trovato una sapienza più grande di quella degli uomini. Ho trovato che Dio esiste ed è Amore, Fedeltà, Gioia, Fortezza, fino alla consumazione dei secoli». La sua memoria liturgica sarà celebrata ogni anno in diocesi il 23 gennaio.