giovedì 17 ottobre 2019
L’antropologa Casella dell’Università Cattolica di Milano: «Gli indigeni sono primitivi? Solo se abbiamo come idea cardine che la civiltà sia la nostra, cioè tecnologica, di mercato e individualista»
Un'immagine del Sinodo per l'Amazzonia a Roma

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«Gli indigeni sono nostri contemporanei. È necessario ricostruire il sapere sulla natura e nella natura della quale loro sono competenti». Anna Casella è docente di antropologia culturale all’Università Cattolica di Milano e all’Università di Brescia. Fondatrice dell’Associazione nazionale universitaria antropologi italiani ha svolto numerose ricerche in America Settentrionale, in Africa, in Europa e in particolare in Brasile.

Professoressa, spesso si ha un’idea esotica dell’Amazzonia. Quali cliché sono ormai da sfatare?
Quando si parla di Amazzonia ci sono equivoci che occorre smontare. Il primo è che sia abitata solo dagli indigeni. L’Amazzonia, in realtà, è formata da tante “Amazzonie”. È plurale. Gli eco-sistemi che la costituiscono non sono solo botanici ma umani: c’è una biodiversità antropologica che è linguistica, culturale e comprende abitanti di comunità e zone rurali come quelli di città e ora anche migranti e profughi. Un altro equivoco è che quella dei popoli indigeni sia una agricoltura di sussistenza e che siano rimasti all’età della pietra. Il che vorrebbe dire: non sono nostri contemporanei, piuttosto dei testimoni di un tempo che fu.

Ma l’immagine trasmessa è che gli indigeni sono dei primitivi…
Per gli antropologi non esistono i primitivi. Il giudizio di primitività è dato dall’idea etnocentrica che la civiltà sia solo la nostra, cioè civiltà tecnologica, di economia di mercato, individualista. Ma se spostiamo il punto di osservazione possiamo notare come questi popoli abbiano una conoscenza dell’ambiente ben più ampia e profonda di quella che ha normalmente un occidentale. E soprattutto usano categorie più opportune di quella molto arida che trasmette l’Occidente. Sono popoli che affrontano i nostri stessi problemi, come l’inquinamento, l’urbanizzazione e ne hanno piena coscienza. Per questi motivi non sono primitivi, sono nostri contemporanei.

Come concepiscono il rapporto uomo-natura?
Il loro pensiero, scrive Lévi-Strauss, è metaforico, analogico ed empatico. Non distingue, non separa, piuttosto tiene insieme, stabilisce relazioni, consonanze. Dunque la natura e l’uomo non sono separati cartesianamente, da un lato la materia bruta dall’altro il pensiero privo di sostegno, ma sono insieme, un continuum. I popoli amazzonici stanno in relazione tra di loro attraverso le vie fluviali, sono i popoli dell’acqua e della foresta. Con questi elementi sono in una relazione di interdipendenza, di comprensione e interazione, «condotta attraverso impercettibili adattamenti, valorizzazione delle risorse senza depredarle, profonda sintonia con un sentire cosmico che nella foresta manifesta tutta la sua forza», come dice il documento preparatorio del Sinodo. E se è difficile individuare una qualsiasi uniformità culturale, tutte queste convergono su alcuni aspetti. Come afferma Viveiro de Castro, antropologo brasiliano, quello che unisce i popoli amazzonici è la straordinaria capacità di trasformare. Vale a dire ribaltare le logiche con le quali l’Occidente concepisce il rapporto uomo-natura.

E qual’è l’idea da ribaltare?
L’idea di natura che si è sviluppata in Occidente è una forma di oggettivazione, una reificazione platonica che serve all’uomo occidentale per definire se stesso come colui che plasma e trasforma una materia inerte. Ma, oggettivando la natura, l’uomo ha oggettivato se stesso: si è ritrovato solo, escluso dalla sintonia con il Creato, condannato all’esercizio di una tecnica sempre meno finalizzata e sempre meno etica. L’antropocene si configura come l’epoca nella quale la presenza dell’uomo ha piegato ed umiliato ogni altra presenza.

Cosa significa quindi anche in una prospettiva antropologica ascoltare le popolazioni indigene?
Partendo dalla specificità del loro ambiente, ascoltare i popoli indigeni significa allargare il concetto di biodiversità fino a comprendere la diversità profonda di stili di vita. Un ascolto dunque che non si traduce semplicemente nella capacità, pur necessaria, di sentire il disagio di questi popoli marginalizzati ma vuole diventare criterio per la ricostruzione del sapere sulla natura e nella natura, sapere del quale i popoli amazzonici sono competenti.

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