L'Aids si vince non solo rendendo accessibili le cure a tutti, ma troncando «le radici umane di questa epidemia». Perché è stato «l’atteggiamento sessuale umanamente errato che ne ha consentito un così rapido dilagare». L’arcivescovo
Zygmunt Zimowski, presidente del Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari, indica l’esperienza di diversi Paesi dell’Africa sub-sahariana, dove l’Aids imperversa da anni: programmi di governo che hanno convinto la popolazione dei vantaggi anche sanitari della fedeltà coniugale, della riduzione di partner, della posticipazione per i giovani dei primi rapporti. Stili di vita, insomma, che hanno ridotto drasticamente i contagi. In Uganda in 12 anni addirittura a un terzo, ma risultati importanti ci sono stati anche in Kenya e Zimbabwe. Con riconoscimenti anche dal mondo scientifico laico e da Unaids, l’agenzia delle Nazioni Unite. La messa in discussione delle strategie riduzionistiche del profilattico, con un approccio invece globale e personalistico, arriva al Convegno internazionale di studio su «La centralità della cura della persona nella prevenzione e nel trattamento della malattia da Hiv/Aids», organizzato dal Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari e dalla fondazione "Il buon samaritano", istituita nel 2004 da Giovanni Paolo II. Per monsignor Zimowski dunque «l’infezione Hiv/Aids non può essere ridotta solo a una patologia somatica immunitaria, da trattare con antiretrovirali. È una malattia sociale e morale che richiede una cura a tutti i livelli». L’Aids infatti «rivela un disordine profondo, antropologico e morale, che riguarda non solo l’atteggiamento sessuale della persona che trasmette il virus, ma anche il tipo di relazioni interpersonali coinvolte nella diffusione dell’epidemia». A caratterizzare l’atteggiamento di chi diffonde il virus è «l’irresponsabilità». Il Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari critica l’approccio che va per la maggiore tra molti addetti ai lavori: «Finché questo disordine viene considerato una scelta privata, l’epidemia rimarrà nella popolazione». La prova che quello della Chiesa non è un atteggiamento ideologico sta nei frutti delle strategie messe in campo in diversi Paesi africani. In Uganda ad esempio l’infezione che nel 1991 era al 14%, s’è ridotta al 4,1% nel 2003. Nella capitale Kampala era al 30% nel 1992, è scesa all’8% nel 2002. L’arcivescovo Zimowski spiega che «il declino è riconducibile alla promozione da parte del governo della politica del
zero grazing, cioé fedeltà coniugale e riduzione nel numero dei partner. Un programma Abc – spiega il presidente del Pontificio consiglio – nel quale l’insistenza era sui due primi termini, ovvero
Abstain e
Be faithful (astieniti e sii fedele, ndr)», mentre il terzo (
use a Condom) è stato tralasciato dal governo perché «secondo il presidente Yoweri Musuveni i preservativi promuovono la promiscuità sessuale senza garantire la sicurezza». Stessa strategia anche nello Zimbabwe, dove è la stessa Unaids nel 2004 a spiegare il declino dell’hiv/aids con la riduzione del
casual sex e il ritardo nell’inizio dell’attività sessuale nei giovani. Motivo, quest’ultimo, che ha contribuito a ridurre l’epidemia anche in Kenya (dal 28% del 1999 nelle cliniche prenatali al 9% del 2003) assieme alla riduzione dei partner. «Si ammette finalmente – dice Zymowski – che non è tanto impossibile far cambiare in questa direzione l’atteggiamento sessuale delle persone a rischio». Il calo nella diffusione e nella mortalità dunque «anche nei Paesi poveri è dovuto al cambiamento di comportamento e all’accesso al trattamento antiretrovirale». Monsignor Silvano Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite, constata con amarezza che «molti governi, autorità sanitarie pubbliche e anche alcune agenzie Onu hanno preferito promuovere un approccio preventivo affrettato, fondato quasi esclusivamente sulla promozione e distribuzione dei profilattici». L’approccio della Chiesa per una strategia più ampia e rispettosa della dignità umana le è costata «false accuse di essere un ostacolo alla reale prevenzione e perfino di colpevolezza della morte di milioni» di sieropositivi. La verità, ricorda il vescovo José Luis Redrado Marchite, segretario del Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari, è che «in molte regioni dell’Africa sub-sahariana gli unici a fornire le terapie antiretrovirali e in favore delle vittime sono proprio i dispensari e i presidi medici appartenenti a congregazioni, ordini e istituti religiosi, nonché ad alcune Ong di matrice cristiana».