Monsignor Tonino Bello in un ritratto del 1990 - Archivio Siciliani
Caro direttore,
sono passati 28 anni da quel meriggio di primavera e noi di nuovo siamo qui, a scrivere di don Tonino Bello. Non vogliamo celebrare un uomo, che pure lo meriterebbe. Siamo qui per pensare, per riflettere, guidati da un evento che nella vita di molti di noi ha rappresento una svolta, come solo alcuni eventi fanno, quelli che segnano “un prima e un dopo”.
Questo è stato il 20 aprile del 1993: il giorno in cui siamo stati costretti a prendere coscienza che don Tonino, non ci stava più accanto. Bisognava iniziare a camminare da soli: quel fratello premuroso, che ci indicava nuovi sentieri, che ci consolava nelle sconfitte e con noi gioiva delle nostre vittorie, quel fratello-vescovo, non c’era più. Ci lasciava un sorriso scolpito nel cuore, un sentimento agrodolce nello stomaco, un senso di smarrimento nell’anima: forse così successe agli amici del Maestro più di duemila anni fa.
Siamo stati fortunati: abbiamo avuto la possibilità di conoscere un profeta, di amarlo e di essere da lui amati. Abbiamo, grazie a lui, conosciuto altri profeti, altri maestri di vita che ci hanno indicato il futuro, ci hanno donato la fede, ci hanno condotto alle soglie del Mistero. E siamo felici perché molti fra quelli che erano critici sono oggi con noi per pensare, per pregare.
Pensare e pregare in fondo per don Tonino erano una sola cosa. Pensare e pregare per entrare nel segreto della Sapienza. Siamo così lontani da questa dimensione che giudichiamo i profeti come “visionari”, in senso dispregiativo: ma forse non ci accorgiamo che non volendo facciamo loro un complimento. Sono loro a indicarci la speranza. Ma sperare non è facile perché sperare significa cambiare. E allora i profeti non disperano e parlano con l’Eterno: «… di questa speranza abbiamo bisogno. Mettiti, perciò al nostro fianco. Noi oggi stiamo vivendo l’epoca della transizione. Scorgiamo le pietre terminali delle nostre secolari civiltà. Addensàti sugli incroci, ci sentiamo protagonisti di un drammatico trapasso epocale, quasi da un’era geologica all’altra. [...] Le frontiere, insomma, nonostante il gran parlare sulle nostre panoramiche multirazziali, siamo più tentati a chiuderle che ad aprirle. Perciò abbiamo bisogno di Te: perché la speranza abbia il sopravvento e non abbia a collassarci un tragico choc da futuro». Questo brano è tratto da “Santa Maria donna di Frontiera”: era il 12 aprile del 1992. Mancava solo un anno alla sua dipartita, e lui ormai la morte la vedeva, la sentiva. Il 22 novembre dello stesso anno (in “Maria donna dell’ultima ora”) scriveva: «Che la morte ci trovi vivi ! Se tu ci darai una mano, non avremo più paura di lei». L’ultimo canto a Maria è del 14 febbraio del 1993 ( “Maria donna innamorata”): «Amare voce del verbo morire».
Non c’era in don Tonino nessun sentimentalismo sterile o vuoto, perché egli appartiene a quella «nube di testimoni» che hanno vissuto con la passione dell’universale e al contempo hanno avuto la grazia di cercare la Sapienza nel cuore degli ultimi. Se rileggiamo la sua vita in questa chiave, potremo capire la vera ragione che lo ha reso “attraente” non solo agli occhi di credenti e non credenti. «La Sapienza - scriveva padre Ernesto Balducci - scaturisce dal fondo in cui pensare e vivere sono la stessa cosa. Essa è testimonianza vissuta per cui molti sono sapienti anche senza saper parlare. Questa sapienza noi dobbiamo testimoniarla e dobbiamo salutarla ovunque emerga, fuori da tutti i confini».
Così ci lasciava don Tonino, e il messaggio era chiaro e forte. Dinnanzi a noi non la fine del mondo, ma la fine di un mondo. Quello vecchio. Muoiano i falsi miti: confine, patria, guerra, razze. Ciò che i filosofi, i politici, gli economisti non ci avevano mai fatto capire, don Tonino Bello lo aveva preannunciato e oggi ci è stato crudelmente spiegato da un virus. Dinnanzi a noi, per non morire, c’è un mondo nuovo da costruire insieme, con Sapienza operativa.
Presidente della Fondazione don Tonino Bello