Da anni è l’interlocutore privilegiato del Vaticano a Gerusalemme per quel che riguarda Israele e il mondo ebraico. Per questo il rabbino David Rosen quei giorni del 2009 li ha vissuti in prima persona accanto a Benedetto XVI pellegrino in Terra Santa. Oggi è molto ammirato dall’umiltà e dal coraggio che le dimissioni di Benedetto XVI rivelano («considerato ciò che rappresentano per il papato – commenta – sono qualcosa di inedito non solo per la Chiesa, ma per la storia dell’umanità intera»). Ma proprio quest’umiltà e questo coraggio sono forse le lenti migliori attraverso cui rileggere anche quel viaggio.
Rabbino Rosen, come ricorda le giornate vissute da Benedetto XVI a Gerusalemme?Con grande piacere ed entusiasmo: furono segnate da gesti importanti. Penso ad esempio alla visita compiuta all’Heichal Shlomo, la sede storica del Rabbinato. Anche Giovanni Paolo II nel suo viaggio aveva incontrato i due rabbini capo, ma era stato un fatto quasi privato. Con Benedetto XVI, invece, fu un incontro di alto profilo, venne anche pubblicato un documento comune: fu la testimonianza di un dialogo più maturo, più consolidato. Un risultato niente affatto scontato. Si sarebbe potuto pensare che la svolta impressa da Wojtyla ai rapporti tra cristiani ed ebrei fosse legata alla sua storia personale in Polonia. Invece Benedetto XVI ha confermato che il dialogo con gli ebrei è la via ordinaria della Chiesa.
Furono giornate anche di parole molto forti riguardo al conflitto in Terra Santa e al ruolo delle religioni per superarlo.Ricordo con particolare gioia il clima fraterno dell’incontro interreligioso a Nazareth, quello della celebre fotografia in cui gli esponenti religiosi - cristiani, ebrei e musulmani - si tengono per mano. Credo, però, che uno dei gesti di pace più importanti il Papa l’abbia compiuto ancora prima di arrivare in Israele, quando sul monte Nebo, in Giordania, parlò dell’"inseparabile vincolo che unisce la Chiesa al popolo ebraico". Sottolinearlo lì, in un Paese arabo e musulmano, fu un atto di grande coraggio.
Vi furono però anche delle incomprensioni in Israele riguardo a questo viaggio. Perché?Certamente, ci furono (anche se le incomprensioni nei confronti di Benedetto XVI non sono state certo un’esclusiva di Israele). Credo che siano nate da un’attesa per un certo tipo di gesti che non erano nelle sue corde. Pesarono anche i sospetti per la sua origine: tutti a Yad Vashem si aspettavano il "mea culpa" in quanto tedesco; ma lui aveva già spiegato ad Auschwitz-Birkenau che considerava il popolo tedesco vittima esso stesso del nazismo. Si può discutere su questa tesi, ma la sua esperienza è questa.
Anche dopo il viaggio del 2009 lei è tornato più volte a incontrare Benedetto XVI: che cosa l’ha colpita di più del suo magistero sulla pace?Ho in mente soprattutto l’incontro di Assisi, nella giornata che volle a 25 anni da quella di Giovanni Paolo II: mi colpì il suo volersi fermare a parlare con ciascuno, nonostante il grande sforzo fisico che questo gli costava. Anche in quell’occasione mostrò tutta la sua integrità, la sua modestia e soprattutto la sua grande apertura d’animo. Sì, credo proprio che questo cuore aperto sia la grande eredità che lascia al cammino verso la pace.