Nunzio Galantino - Siciliani
Domenica, pomeriggio, ai piedi del Crocifisso e della Madonna «c’era tutta l’umanità», insieme con il Papa. Un’umanità che monsignor Nunzio Galantino, presidente dell’Apsa (Amministrazione patrimonio sede apostolica) e già segretario generale della Cei, si augura di vedere diversa, dopo l’emergenza. «Attenzione, delicatezza, cura e consapevolezza », auspica, siano l’eredità di questo periodo difficile. Insieme a «un clima meno conflittuale e rissoso» e una «rinnovata attenzione» ai bisogni, anche spirituali delle persone. Il vescovo, infatti, da un lato legge i segnali del momento, ma dall’altro indica una precisa prospettiva che è quella di far tesoro della “lezione” della pandemia. Oltre tutto c’è un dovere verso chi muore per la malattia, sottolinea. Migliorarci per non ucciderli due volte.
Monsignor Galantino, qual è stata la sua prima impressione, vedendo il Papa recarsi in pellegrinaggio a Santa Maria Maggiore e San Marcello al Corso?
Un gesto sorprendente. Fatto nel rispetto di quanto opportunamente chiesto dalle autorità governative. Recandosi a Santa Maria Maggiore e a san Marcello, papa Francesco ha portato simbolicamente con sé tutta l’umanità ai piedi del Crocifisso e della Madonna. Facendo quello che farebbe qualsiasi papà o mamma credenti, che sentono il peso e la gravità del momento. Ed anche la loro impotenza.
Eppure qualcuno ha espresso perplessità per questa iniziativa del Papa. Quasi si fosse trattato di una sfida alle norme imposte.
Io penso che recandosi in pellegrinaggio a pregare con tutti e per tutti, il Papa ha voluto sottolineare quello che lui, i vescovi, i sacerdoti e tanti laici credenti vanno ribadendo in questo periodo: tra le tante cose di cui abbiamo bisogno urgente e per le quali è permesso mettersi in cammino, c’è la preghiera. Quello del Papa è un gesto simbolico, fatto a nome di tutti. E anche i simboli, in questo momento, servono a tenere desta la speranza. Sul piano simbolico, anche se a un livello del tutto diverso, servono anche i partecipati flash mob. Fanno sentire meno soli ed esprimono speranza
Secondo lei, il riferimento a don Abbondio era un ammonimento ai sacerdoti?
Attenzione! Le parole del Papa all’Angelus vanno lette integralmente e mettendo da parte la mediazione maldestra che ne è stata fatta. Non è la prima volta che egli esprime gratitudine sincera e apprezzamento profondo per «... sacerdoti che pensano mille modi di essere vicino al popolo, perché il popolo non si senta abbandonato; sacerdoti con lo zelo apostolico, che hanno capito bene che in tempi di pandemia non si deve fare il “don Abbondio”. Grazie tante a voi sacerdoti». Sono queste le parole del Papa. Che dire di più? Parole che si pongono accanto alle apprezzate e delicate parole rivolte dal presidente della Cei a tutti i sacerdoti.
Come assicurare, dunque, vicinanza spirituale pur non celebrando alla presenza dei fedeli?
Mai come in questo momento le comunità credenti, a tutti i livelli, e le comunità di religiosi/e stanno mostrando carità pastorale e attenzione verso i bisogni spirituali delle persone. So di palinsesti stravolti (ad esempio da Tv2000) e della disponibilità che Avvenire ha dato di godere gratuitamente del giornale online. Sono solo i primi esempi che mi vengono in mente. Tanto, davvero tanto si sta facendo per accompagnare la preghiera e la riflessione di chi sta doverosamente osservando l’obbligo di rimanere in casa. Basta visitare i siti diocesani, quelli parrocchiali e il sito ufficiale della Cei per toccare con mano l’intraprendenza pastorale dei sacerdoti, sostenuti dalle proprie comunità. Davvero straordinari! Pastoralmente straordinari i nostri preti e i loro collaboratori! Come non pensare ora ai preti morti in questi giorni, soprattutto a Bergamo, a causa del Covid 19? Se ne parla ancora poco. Invece dobbiamo farlo.
E la carità? Come continuare a farla nel rispetto delle disposizioni sanitarie?
Quella che veniva chiamata la “fantasia della carità”, oggi più che mai, si è trasformata da una bella formula in realtà vissuta. Con pranzi consegnati a domicilio, raggiungendo quanti ogni Caritas, comunità parrocchiale o religiosa, conosce bene e serve da sempre.
Tenere le chiese aperte che segnale è?
Tenere aperte le chiese, che assicurano il rigoroso rispetto delle norme emanate, è un modo per dire che il Signore… non si è messo in sicurezza. Assieme alle numerose iniziative intraprese, una chiesa aperta può dire, anche in questo modo e ancora una volta a tutti che insieme e con l’aiuto del Signore “Andrà tutto bene”.
Più in generale cosa ci sta insegnando questa emergenza?
Penso che ognuno di noi, al di là di quello che (si) dice pubblicamente, sta maturando pensieri, sentimenti, emozioni e decisioni personali. Mi auguro solo che tutto possa crescere avendo sullo sfondo una gran voglia di maggiore coesione e soprattutto l’impegno a creare un clima meno conflittuale e rissoso. Se, passato questo momento, ricominceranno le sterili contese pur di accaparrarsi qualche voto in più, o gettando la croce sugli altri o attribuendosi meriti, vorrà dire che il coronavirus, a parte le vittime che ha mietuto, sarà passato invano. E avremo reso inutile anche la morte di tanti fratelli e sorelle. Uccidendoli una seconda volta.
Quando la crisi finirà, quali miglioramenti si augura di vedere nella Chiesa e nella società?
Mi auguro un recupero della essenzialità e della leggerezza, che non è superficialità. La leggerezza come esercizio quotidiano e attitudine interiore fatta di attenzione, delicatezza, cura e consapevolezza. Come quella che sto vedendo esercitare nei campi più diversi, da quello sanitario a quello della formazione. Come stonano e come mostrano tutta la loro assurdità, ora, le aggressioni al personale sanitario e agli insegnanti cui abbiamo assistito finora! Mi auguro che tutti possiamo contagiarci la forza di condannare senza mezzi termini questi atteggiamenti demenziali. Auguro che tutti possiamo vivere la leggerezza del viandante ristorato, dopo una dura traversata, pronto a proseguire il viaggio con gli altri. Consapevoli, insieme, che le cose importanti si possono vivere e raccontare senza aggressiva arroganza, col sorriso e senza che perdano in intensità e in profondità.