Comunque vada a finire la vicenda dell’ex Ilva una cosa è certa: è stata gestita male. Ora resta solo una possibilità: evitare che una partita decisiva per il futuro industriale del Paese si chiuda malissimo.
In teoria, la ricetta per impedire una disfatta totale sarebbe semplice. Basterebbe dotarsi del coraggio di scegliere. Gli atavici difetti della classe politica italiana, tuttavia, rendono tale passaggio particolarmente complicato da compiere. Negli ultimi anni, del resto, abbiamo assistito a temporeggiamenti estenuanti, innumerevoli rinvii di decisioni cruciali e continui rimpalli di responsabilità che hanno avuto come effetto un progressivo indebolimento di un’acciaieria ormai più spenta che accesa.
Oggi le premesse per rimediare almeno parzialmente ai tanti errori del passato non sembrano certo incoraggianti. Nelle ultime ore, sul piano industriale, si è verificata la rottura della trattativa tra Governo e Arcelor Mittal sulla ricapitalizzazione, tra rifiuti ad assumere impegni finanziari e lo spettro di una lunga battaglia legale da affrontare nelle aule di tribunale. Contemporaneamente, a livello politico, è andato in scena un altro scambio di accuse poco appassionante tra due ex ministri dello Sviluppo Economico – Carlo Calenda e Stefano Patuanelli – su chi sia il principale responsabile di questo disastro siderurgico. Tali schermaglie avvelenano il clima, non facilitano l’uscita dall’impasse e distolgono l’attenzione dai veri problemi da affrontare.
Adesso il punto nodale della questione non è tanto impedire o meno la chiusura dell’acciaieria più grande d’Europa.
A che cosa servirebbe, del resto, prolungare per qualche mese la vita del “mostro”, come lo chiamano a Taranto, in assenza di un vero progetto di rilancio? Certo, dal Governo qualcuno potrebbe cantare vittoria, rivendicando come un successo politico la “salvezza” (temporanea) dell’Ilva. Ma senza un piano di breve, di medio e di lungo termine che garantisca un futuro alla fabbrica ci sarebbe ben poco da festeggiare.
Un’ennesima iniezione di liquidità per far fronte alle esigenze più impellenti (dalle forniture di gas ai pagamenti delle fatture alle imprese dell’indotto) risulterà inutile, se non sarà accompagnata da un piano di politica industriale che contempli la salvaguardia occupazionale, il risanamento ambientale e una transizione per arrivare a produrre un acciaio green.
La vicenda recente dell’ex Ilva sembra un copia e incolla di quella della vecchia Alitalia (oggi Ita).
Due storie infinite tra bilanci in rosso perenne, inchieste giudiziarie, commissariamenti e crisi mai davvero risolte in quel deleterio alternarsi tra privatizzazioni fallimentari e nazionalizzazioni ad alto costo per i conti pubblici. Non essere riusciti a individuare percorsi solidi per due asset strategici dell’industria nazionale è un dato di fatto che non si può cancellare. Troppo spesso si è vissuti nell’eterna speranza – mal riposta – dell’arrivo di cavalieri bianchi che poi o non si sono mai palesati o hanno clamorosamente fallito.
Se per l’ex compagnia di bandiera il futuro – via libera Ue permettendo – è tedesco e si chiama Lufthansa, per l’ex Ilva il domani è un rebus ancora tutto da risolvere. Stasera si terrà un nuovo vertice a Palazzo Chigi che si preannuncia decisivo tra una delegazione del governo e i sindacati. Dopo i troppi incontri interlocutori delle scorse settimane, stavolta le sigle metalmeccaniche si aspettano di ricevere risposte certe per mettere in sicurezza impianti, ambiente e lavoratori. Inutile dire che non c’è più tempo.
È arrivato il momento delle scelte, appunto. Decisioni vere, da prendere pensando alle emergenze del presente ma con una visione del futuro. Ciò che non serve proprio è un’altra soluzione “tampone”, che permetta all’ex Ilva solo di vivacchiare ancora per un po’. Sarebbe una sorta di non-scelta. E come affermava Jean-Paul Sartre anche quando si decide di non scegliere si fa comunque una scelta.