sabato 7 ottobre 2023
Nel dvd "Vajont'63 il coraggio di sopravvivere" le immagini choc girate dai vigili del fuoco la notte della strage. Nei volumi "Mai più Vajont" e "Vajontsenza fine" un racconto che arriva fino a oggi
Longarone dopo il disastro

Longarone dopo il disastro - Immagine tratta dal docufilm “Vajont '63, il coraggio di sopravvivere”

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Vajont è la fine del mondo. Vajont è il misfatto compiuto da più complici in una micidiale catena di spregiudicatezze. Vajont è indimenticabile. Eppure i giovani non possono ricordare e spesso non sanno. Per ciò è un dovere civile, in questo anniversario a 60 anni dal più grave disastro della storia d'Europa, riguardare il crudo documentario Vajont '63 - Il coraggio di sopravvivere, prodotto da Venicefilm (www.venicefilm.it) raccogliendo uno straordinario materiale filmato di repertorio, in gran parte inedito: «Abbiamo ritrovato i video girati dai vigili del fuoco la notte stessa della strage alla luce livida delle torce e nella desolazione del giorno seguente, quando al sorgere del sole ci si rese conto davvero che sulla terra era precipitato l’inferno», spiega il produttore Alessandro Centenaro.

Longarone, prima della strage

Longarone, prima della strage - Immagine tratta dal docufilm “Vajont '63, il coraggio di sopravvivere”

Longarone la mattina del 10 ottobre, il giorno dopo il diluvio universale

Longarone la mattina del 10 ottobre, il giorno dopo il diluvio universale - Immagine tratta dal docufilm “Vajont '63, il coraggio di sopravvivere”

Per oltre due ore scorrono immagini rimaste sepolte per decenni nei sotterranei dei Palazzi romani: superstiti che si aggirano come fantasmi su un suolo identico a quello lunare nel punto in cui fino al 9 ottobre alle 22.39 c’erano la loro casa e la loro famiglia; cadaveri che galleggiano nel lago creato dalla frana, incagliati tra tronchi, macerie e oggetti di vita quotidiana; soccorritori che tirano in barca i corpi nudi con lacci passati attorno al collo e li allineano sulla riva; sopravvissuti che cercano i loro cari tra mucchi di salme, il riconoscimento reso difficile dallo stato dei corpi; ruspe che scavano fosse comuni in cui calare al più presto file innumerevoli di bare. Sui coperchi di ciascuna è inchiodata la foto della persona che vi è chiusa, così come è stata recuperata, l’espressione congelata nel terrore...

Il tutto inframmezzato dalle testimonianze, anche queste inedite, di chi allora era ragazzo e ancora oggi vive di incubi. La gente era in casa, molti già a letto, altri al bar a vedere alla tivù la finale di Coppa campioni. Di colpo un vento innaturale e sotto, crescente, un rombo mai sentito, non descrivibile. «La nonna ha urlato: è la fine del mondo, scappa, scappa», racconta Gervasia Mazzucco, allora bambina. L’impatto ebbe la potenza di due volte la atomica di Hiroshima, «il vento, prima ancora dell’acqua, aveva spogliato le persone», dice il vigile del fuoco Giulio Erinacea, «li trovavamo nudi. Ho visto una culla con un piccino nudo, sembrava Gesù Bambino, l’ho preso per un braccetto e una gambetta e l’ho passato fuori. Lì accanto c’era sua madre, sposetta giovane». Dosolina D’Incà girava «in tondo a imbuto, speravo solo che finisse in fretta». Renzo Bristot ansima mentre ricorda: «Finito tutto, nel buio assoluto qualcuno doveva andare a capire cosa fosse successo, andai io che avevo 18 anni. C’era una signora con il ventre sfondato da una trave, e fuori il feto. Io ho avuto una paura tremenda». Angelo Baraldo, ex capitano del 6° Reggimento Alpini: «Dopo i primi giorni i soldati non volevano più venire, vomitavano, non mangiavano». Qualcuno si tolse la vita, molti dovettero curarsi.

I sopravvissuti vagano in cerca di una traccia del luogo in cui sorgeva la loro casa

I sopravvissuti vagano in cerca di una traccia del luogo in cui sorgeva la loro casa - Immagine tratta dal docufilm “Vajont '63, il coraggio di sopravvivere”

Tra i libri appena usciti, il volume Mai più Vajont 1963/2023 (ed. Fuori Scena)​ scritto da Paolo Di Stefano e Riccardo Iacona non solo ricostruisce ciò che avvenne dopo il 9 ottobre del 1963, ma per la prima volta riunisce i reportage di tutte le grandi firme del giornalismo che dal giorno dopo la tragedia raccontarono ciò che videro e provarono a ricostruire i fatti. Sono pezzi spesso memorabili e rimasti famosi, nel bene e nel male (quasi tutti gli inviati in un primo momento parlarono di fatalità anziché di colpevolezza). Ma il libro riporta anche la lunga battaglia giudiziaria, le strumentalizzazioni politiche, l’indifferenza fino al disprezzo per la gente comune, le connivenze tra funzionari pubblici e gruppi industriali. Impressiona leggere il destino (umano e giudiziario) che toccò infine ai protagonisti: solo Alberico Biadene della Sade sarà condannato al carcere, 5 anni, di cui 3 condonati. Mentre l'ingegner Mario Pancini, fuggito in Svizzera per non essere arrestato, sarà travolto dal rimorso e si toglierà la vita il giorno prima dell'inizio del processo: «Colpa o non colpa, ci sono duemila morti», non faceva che ripetere. Di grande impatto il confronto che il volume propone (non dichiaratamente) mettendo in fila i vari reportage: da quel "Nessuno ne ha colpa, nessuno poteva prevedere" di Giorgio Bocca su Il Giorno dell'11 ottobre 1963 o da quel "Noi non abbiamo competenza tecnica che ci consenta di giudicare, non possiamo escludere a priori che ci siano delle responsabilità" perseverato da Indro Montanelli sul Corriere della Sera ancora il 3 novembre del 1963, si va a sbattere contro l'arrabbiato incipit di Tina Merlin sull'Unità, "E' stato un genocidio. Un genocidio da gridare ad alta voce a tutti", scrive l'unica che aveva capito tutto da prima che accadesse. "Oggi tuttavia non si può soltanto piangere. E' tempo di imparare qualcosa", conclude la giornalista, ma anche in questo auspicio il suo nome è Cassandra.

Il volume Vajont senza fine, edito da Baldini-Castoldi con prefazione di Marco Paolini, ripropone invece gli articolo di Mario Passi, giornalista dell'Unità scomparso nel 2019. In una sorta di passaggio del testimone ricevuto dalla Merlin, Passi non fa sconti e ripercorre le mistificazioni e le coperture prima e dopo la tragedia, ma soprattutto le infinite tappe di un processo che è il monumento all'ingiustizia. "In prigione nel carcere della sua città, Venezia, ci finirà solo Biadene. Un detenuto modello... uscirà in anticipo per buona condotta". Intanto che l'iter giudiziario del Vajont consuma i decenni, in Val di Stava, Trentino, "crollano le colline della miniera di Prestavel, 180mila metri cubi di fango uccidono 268 fra valligiani e turisti. La lezione non è servita" (siamo nel 1985). Nel 1992 si chiude anche il processo per Stava: condanna per dieci imputati, "nessuno ha scontato un solo giorno di carcere".

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