lunedì 19 agosto 2024
Lungo le strade che univano l'Impero Romano alla Cina, fra passato e presente, questa terra non smette di ammaliare lo spirito dei viaggiatori e di raccontare la sua storia leggendaria

Tutti, nella vita, abbiamo sentito parlare della “Via della Seta”, la leggendaria rotta commerciale che univa oriente e occidente, e che deve il suo nome alla merce più rara e preziosa che veniva commerciata da un’estremo all’altro del mondo allora conosciuto, appunto la seta. L’espressione “Via della Seta”, tuttavia, può facilmente indurre nell’equivoco di pensare che si trattasse di un percorso unico, una sorta di enorme sentiero che univa l’impero Romano alla Cina, ma la realtà è molto diversa: la Via della Seta era infatti costituita da molteplici rami che seguivano le rotte più disparate, ognuno dei quali cercava di aggirare o trarre vantaggio dalle grandi barriere orografiche che si interponevano (e si interpongono tutt’ora) tra i due capi dell’Eurasia: i monti del Caucaso, il Mar Caspio, i deserti del Karakum e del Kyzylkum, i sontuosi massicci montuosi del Pamir, dell’Hindukush e dell’Himalaya, per citare gli esempi più eclatanti.

Se osserviamo il percorso di questi diversi rami, ci accorgiamo che la maggior parte di essi tendeva a convergere (per poi nuovamente divergere) in un punto ben preciso, a metà strada tra il Mar Caspio e i monti del Pamir, nei pressi del bacino idrografico di uno dei fiumi più importanti dell’Asia Centrale, il fiume Amu Darya, il cui corso divide il deserto del Karakum da quello del Kyzylkum. Gli antichi greci chiamavano questo fiume “Ox”, di qui il nome storico di questa regione: Transoxiana, ovvero tutto ciò che sta al di là del fiume Ox. È in questo territorio, che corrisponde in larga parte al moderno Uzbekistan, che si trovano le più importanti città della Via della Seta.

Ideale centro geografico di un’enorme dedalo di rotte commerciali, qui sono sorte città la cui fama è entrata nell’immaginario collettivo di un intero continente. Il solo sentirne pronunciare i nomi, trasmette un brivido di eccitazione a qualunque viaggiatore. Khiva. Bukhara. Samarcanda. Nomi che è impossibile separare dall’alone di fascino e mistero che le circonda da millenni. Ai tempi d’oro queste città fiorivano di una ricchezza materiale e culturale che non aveva pari al mondo. Un’incessante via-vai di mercanti europei e asiatici che dovevano necessariamente sostare in queste città creò un’interazione culturale e materiale che sarebbe stata eguagliata solo in epoca moderna con l’arrivo della globalizzazione, e che ha reso questa parte di mondo un terreno fertile per il fiorire delle conoscenze umane. Per fare due nomi, vissero qui personalità del calibro di Al Khwārizmī, padre dell’algebra e a cui si deve la parola “algoritmo”, e Avicenna, che con la sua attività nel campo della filosofia e della medicina fu uno dei principali riferimenti culturali dell’Europa del medioevo e del rinascimento, al punto da meritare una menzione nella Divina Commedia, nel novero dei grandi filosofi.

Questa regione, che è fisicamente il centro dell’Eurasia, avrebbe potuto conoscere uno sviluppo inimmaginabile in un mondo pacifico, ma la sua posizione l’ha resa una protagonista d’eccezione delle devastazioni della storia: di fatto, tutta l’Asia Centrale si è trovata a essere la periferia dei grandi imperi che le ruotavano intorno. Prima furono i persiani. Poi Alessandro Magno, poi gli arabi dell’espansione islamica, poi i mongoli di Gengis Khan, poi l’impero Russo e infine l’Unione Sovietica. Ciascuno di questi grandi imperi giungeva in Asia centrale e, con poche eccezioni, distruggeva ciò che vi trovava, azzerando il conto delle meraviglie che l’uomo aveva qui realizzato. La principale eccezione in questo avvicendarsi tra periferie di enormi imperi del tutto diversi tra loro fu rappresentata dall’impero Timuride, sotto la guida di Tīmūr Lang, originario proprio di Samarcanda e oggi eroe nazionale Uzbeko, che in Italia conosciamo come Tamerlano. Al netto delle immani carneficine di cui fu responsabile nelle sue sanguinose conquiste, è alla sua opera che dobbiamo attribuire gran parte dell’odierno splendore delle grandi città della Via della Seta.

La Samarcanda che ammiriamo oggi non assomiglia in alcun modo a quella che destò la meraviglia di Alessandro Magno. La Bukhara odierna non ha quasi più quasi nulla della “Sacra Bukhara” la cui fama si spandeva in tutto il mondo islamico prima dell’arrivo dei mongoli. L’oasi di Khiva in apparenza ci regala atmosfere di un’altra epoca che possono sembrare aver eroicamente resistito alle tragiche vicende storiche, ma sono in realtà il frutto di un imponente restauro avvenuto in tempi recenti. Più in generale, le imponenti moschee, madrase, mausolei e minareti che sono ancora oggi le icone di queste città, e anzi dell’intero immaginario nostrano del concetto di “Via della Seta”, sono frutto di un’imponente politica di ri-valorizzazione culturale e restauro artistico iniziato già in epoca sovietica, e ulteriormente incentivato negli anni dell’indipendenza Uzbeka.

L’Asia centrale, da sempre oggetto del desiderio dei potenti della terra, vede oggi il suo futuro in bilico tra l’influenza storica e linguistica della Russia, quella culturale pan-turca della Turchia sedotta da idee neo-ottomane, e soprattutto quella economica Cinese, a cui si deve il ritorno in auge proprio del concetto che ha accompagnato la storia di questa regione: la Via della Seta. Sommersa nei secoli scorsi dall’instabilità della regione e dall’esplosione del commercio marittimo dell’era contemporanea, la Via della Seta risorge con il progetto Cinese “One Belt, One Road”, che vede Pechino investire cifre colossali nella costruzione e nell’ammodernamento di infrastrutture in tutti gli -stan dell’Asia Centrale per ripristinare in chiave moderna e “asfaltata” quell’antica via commerciale che portò gloria a questa regione, un enorme fermento filosofico e scientifico, e, non ultimo, grandi ricchezze in occidente.

In chi viaggia per le grandi città storiche dell’Uzbekistan, facendo lo slalom nell’intricata e sofferente storia di questa regione, subendo le lusinghe dei colori sgargianti dei lapislazzuli di Samarcanda, e dei minareti di Khiva e Bukhara, piano piano si delinea, a metà strada tra occhi e cuore, una tiepida consapevolezza: la Via della Seta, come ogni grande leggenda in grado di ammaliare lo spirito di un viaggiatore, non ha ancora finito di raccontare la sua storia.

Chi è

Stefano Tiozzo, nato a Torino nel 1985, fotografo paesaggista, documentarista, storyteller e scrittore. Laureato in Odontoiatria e protesi dentaria, dopo nove anni di professione abbandona la medicina per dedicarsi a tempo pieno alla sua vocazione che diventa la sua specializzazione: viaggi e natura. Il suo canale YouTube è uno dei principali canali di viaggio in Italia, conduce workshop fotografici in tutto il mondo, con un focus particolare sui viaggi nell'Artico, dedicati principalmente alla caccia all'aurora boreale. Tiene regolarmente corsi di fotografia e negli anni ha collaborato con diversi brand, numerosi enti locali del turismo italiani e per la Commissione Europea. Ha pubblicato tre libri per Ts Edizioni, il best seller “L’anima viaggia un passo alla volta” (2020), “Una scelta d’amore” (2021) e “L’altra faccia della Russia” (2022). Nel 2019 ha fondato “Seva project”, un progetto di documentario ambientale volto a finanziare progetti di riforestazione nel Sud del mondo, giungendo a piantare oltre 8000 alberi.

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