venerdì 31 maggio 2019
Sempre più evidente la correlazione tra questo componente dei proiettili e l’insorgenza di tumori tra i soldati italiani nei teatri di guerra. E anche tra la popolazione civile
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Il militare italiano morto suicida a ottobre, che era stato in Serbia nel 1999, aveva nel midollo osseo metalli pesanti. Come la popolazione civile serba che ha vissuto sotto i bombardamenti Nato a Belgrado. Ennesima conferma, sostiene Domenico Leggiero del comitato Osservatorio Militare, della correlazione tra l’uranio impoverito dei proiettili e l’insorgenza di tumori tra i soldati italiani nei teatri di guerra. Ad oggi 366 i decessi - afferma l’Osservatorio - e 7.500 i malati. Correlazione finora negata dalle Forze Armate, nei processi per richieste di risarcimento. «Già 130 le sentenze che riconoscono il nesso di causalità», afferma l’avvocato Angelo Fiore Tartaglia, legale di molti dei militari colpiti.

A rinnovare l’appello alla Difesa perché riconosca il danno subito da migliaia di soldati è lo stesso Osservatorio militare. Luigi Sorrentino dunque aveva tracce di uranio 238 nel midollo osseo. L’ex caporalmaggiore dell’Esercito si era tolto la vita a Torino, a 40 anni, dopo aver contratto la leucemia. Dopo le missioni in Kosovo e Afghanistan, aveva sempre detto.

A confermarlo è la dottoressa Rita Celli, specialista in medicina legale, ex consulente della Commissione d’inchiesta sull’uranio impoverito della scorsa legislatura. «C’era uranio 238 nel midollo osseo di quel militare, in quantità molto significativa, 10,4 microgrammi per litro, il doppio di un soggetto normale». Tassi analoghi, spiega, della popolazione delle aree di guerra, come dimostrato da uno studio di tossicologi serbi pubblicato a novembre 2018. Dalle analisi su un ampio campione di cittadini di Belgrado «sono emersi livelli di contaminazione fino a 100 volte superiori» alla norma. Celli parla di «corrispondenza tra i dati della popolazione di Belgrado e i militari italiani reduci da missioni». Soldati con «la stessa incidenza, sopra la media, di malattie oncologiche» della capitale serba.

L’uranio 238 di molti proiettili e bombe Nato «quando impatta sui metalli produce temperature così alte – spiega Marco Rossi, docente di ingegneria delle nanotecnologie alla Sapienza – da vaporizzarli. Gas che poi nell’aria si solidificano in nanoparticelle, grandi un millesimo di un capello, che una volta respirate possono creare conseguenze dopo anni di accumulo». L’organismo non le elimina perché non le riconosce come sostanze tossiche. «Non faccio relazioni tra nanoparticelle e conseguenze, ma di certo non possono essere presenti nel nostro organismo». Il docente cita il caso di un militare italiano che nel corpo aveva addirittura nanoparticelle di oro: «Aveva fatto la guardia in un museo di Belgrado bombardato che conteneva manufatti in oro».

Diversamente dai militari di altri paesi Nato – avvisati sui rischi, dotati di presidi di sicurezza, indennizzati in caso di malattia – «gli italiani sono stati mandati senza maschere né guanti a lavorare tra le macerie, non gli è stato detto di non usare l’acqua e il cibo locale», conclude l’avvocato Tartaglia. Il mancato riconoscimento di queste “malattie professionali” da parte delle Forze Armate, sostiene Leggiero, «non è un problema economico: per tutti basterebbe la metà del costo di un F35».

Dal ministro della Difesa arrivano segnali di apertura: Elisabetta Trenta in Senato parla di «invertire l’onere della prova, sollevando il personale dal dover dimostrare di avere contratto la patologia» in servizio. Sarà l’amministrazione a dimostrare che la malattia derivi da altre cause». Parole che «riaccendono la speranza», dice l’ex maresciallo Vincenzo Riccio, in Iraq nel 2003 e nel 2006, che da dieci anni combatte contro un tumore: «Ma siamo stanchi di chiacchiere, si facciano i fatti».



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