Né l’utero in affitto né l’adozione omosessuale sono contemplati dall’ordinamento italiano. Eppure, in un colpo solo, la Corte d’appello di Trento, ha ignorato due limiti di legge (anzi tre, considerando la forzatura della legge 40), permettendo al partner di una persona omosessuale di essere iscritto all’anagrafe come «secondo padre» di una coppia di bambini nati con maternità surrogata.
La sentenza rappresenta una pericolosa fuga in avanti anche rispetto a quella già sconcertante pronunciata in Corte di Cassazione lo scorso anno a proposito di una figlia programmata in Spagna da due donne con fecondazione eterologa e deliberata 'rimozione' del padre. E ammette l’opportunità di una sperimentazione antropologica di cui nessuno, checché se ne dica, è ancora in grado di valutare la conseguenze.
La sentenza è stata pronunciata in nome di quel «superiore interesse del minore» che sembra ormai diventato uno sbrindellato luogo comune, e non può nasconde che la sua motivazione autentica è il soddisfacimento della «comune aspirazione alla genitorialità» di due uomini che per questo hanno 'colonizzato' il corpo di una donna, riducendola a 'fattrice' di figli a pagamento.
Lungo questa via si arriva ad "approvare" la pretesa adultocentrica di due conviventi dello stesso sesso, superando il dettato dell’articolo 44 delle legge 184 sulle adozioni. Questa è ormai evidentemente la posta in palio. Arrivare cioè alla discussione decisiva sulla riforma dell’istituto dell’adozione con un carniere ben nutrito di sentenze favorevoli all’omogenitorialità.