Un panorama del Senegal, Paese che adotta il Cfa
Correva il dicembre 1945 quando un decreto firmato da Charles de Gaulle istituiva di fatto il franco Cfa (che in origine significava Franco delle Colonie francesi d’Africa e oggi invece Comunità francesi d'Africa), al momento in cui Parigi ratificava gli accordi di Bretton Woods.
Ma più di 70 anni dopo, ha ancora senso che ben 15 Stati africani, 8 nel settore occidentale (Senegal, Guinea-Bissau, Mali, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Niger, Benin, Togo), 6 nell’Africa centrale (Ciad, Camerun, Repubblica Centrafricana, Congo Brazaville, Gabon, Guinea equatoriale), oltre alle Isole Comore, adottino divise ereditate dall’epoca coloniale?
La polemica appena rilanciata dal governo italiano non è certamente nuova e anche Avvenire ha affrontato in passato più volte questo tema, a cavallo fra economia e geopolitica. In effetti, a più riprese, la Francia ha già dovuto fronteggiare critiche anche aspre sulla propria condotta verso le proprie ex colonie. Il concetto di «Francafrica» descrive proprio il vasto insieme delle zone d’ombra che hanno accompagnato il protrarsi di relazioni quantomeno poco equilibrate fra Parigi e tante cancellerie africane.
La tesi che il franco Cfa sia per la Francia uno «strumento di controllo » per conservare una zona d’influenza in Africa è stata rilanciata più volte anche dal mondo universitario: di recente, ad esempio, da parte dell’economista senegalese Ndongo Samba Sylle. Circa 155 milioni di africani nei Paesi della cosiddetta «zona franco» continuano a impiegare una moneta che mantiene una parità rigida con l’euro. Una situazione avallata nel quadro dell’Unione Europea con il Trattato di Maastricht.
Sul piano monetario, i Paesi che adottano il franco Cfa restano dunque strutturalmente agganciati all’economia europea, con il Tesoro francese nel ruolo di garante di questa relazione, percepita molto spesso come un retaggio coloniale. In Africa, sono soprattutto due banche centrali regionali, la Bceao (basata a Dakar, in Senegal) e la Cemac (a Yaoundé, in Camerun), a vigilare sulla circolazione monetaria del franco Cfa, ma entrambi gli organismi riservano ancor oggi dei seggi a rappresentanti francesi.
I Paesi dell’area del franco Cfa hanno l’obbligo di versare metà delle proprie riserve di cambio presso il Tesoro francese. Inoltre, le banconote continuano ad essere stampate oltralpe. Sul fronte geopolitico, pochi osano negare il drastico squilibrio che il sistema implica in termini di libertà nelle politiche monetarie. Ma in proposito, Parigi risponde da tempo ai detrattori sostenendo che i Paesi africani conservano la libertà di lasciare il sistema, com’è in effetti avvenuto per Mauritania e Madagascar. Sul piano degli effetti economici, il dibattito fra gli esperti è più aperto.
L’aggancio con l’euro consente una stabilità monetaria che evita ai Paesi africani sbalzi violenti, anche in termini d’inflazione. Ma al contempo, si tratta di una tara che penalizza le esportazioni africane, avvantaggiando al contrario l’arrivo nel Continente di beni d’importazione. Chi addita il franco Cfa come «strumento di dipendenza» enfatizza in generale le implicazioni diplomatiche di questo sistema monetario, con la Francia ancor oggi nel ruolo di «potenza» di riferimento per cancellerie africane non di rado dalla reputazione democratica più che dubbia.