Nel grande spiazzo davanti al silos, tra la stazione e il porto, di fronte al mare, la partita pomeridiana di cricket è appena iniziata. Con mazze adattate portate dal Pakistan e palline da tennis modificate con il nastro isolante, si fronteggiano afghani e pakistani. Sono i profughi della piccola Lampedusa, come viene chiamata Trieste. Realtà dimenticata, ma i dati prefettizi non lasciano dubbi: a marzo del 2013 c’erano una ventina di persone, oggi sono 260. Tanti per una città di 200 mila abitanti che non offre possibilità lavorative a un’umanità fuggita da guerre, persecuzioni e da paesi ridotti alla miseria per trovare lavoro nella vecchia Europa. Colpa dei muri alzati un anno fa in Grecia e Bulgaria. Ora il passaggio costa di più e avviene inevitabilmente dalla Slovenia a Trieste o Gorizia. Sono tutti maschi con meno di 30 anni, hanno lasciato le famiglie per iniziare consapevolmente viaggi diventati odissee. Cifra minima sei mila dollari per chi, la maggior parte attraversa a piedi Iran, Turchia e Balcani, allungando dall’Ungheria fino al Carso, obbedendo agli ordini dei trafficanti che concedono poche ore di sonno e non ti fanno stare mai fermo. Il viaggio costa invece 10mila dollari per i più ricchi che arrivano in Turchia in aereo. Vengono al silos a concedersi un po’ di nostalgia. Si va dai richiedenti asilo in attesa di giudizio ai 'diniegati'- come si chiamano coloro la cui domanda di asilo è stata respinta e hanno presentato ricorso - ai rifugiati con permesso, ma senza lavoro né alloggio. Regolari e parte di un flusso inarrestabile, in balia di una catena di trafficanti globale. Flusso alimentato anche dai respingimenti dal Regno Unito che, in base al regolamento di Dublino, rimanda un profugo nel paese europeo di ingresso. «Il silos – mi spiega don Sandro Amodeo, direttore della Caritas diocesana – è il primo appoggio per chi varca la frontiera. Si trova tra la stazione e il porto e dopo la seconda guerra mondiale vi furono ospitati per anni i profughi italiani fuggiti dall’Istria». Oggi vi dormono disperati asiatici in rifugi tirati su con plastica e compensato. «Dentro ci sono una sessantina di persone – conferma il sacerdote – che non hanno trovato posto nelle strutture di accoglienza cittadine». Sono 'senza destinazione', mangiano alla mensa Caritas al mattino e alla sera. «Da noi hanno anche cure mediche – aggiunge il prete – abiti e l’opportunità di frequentare corsi di italiano». Abby, nome di fantasia, afghano di etnia hazara (perseguitata dai talebani pashtun) mi guida nel silos. Accanto alle pareti, ci sono una decina di cubicoli dalla quale spuntano teste incuriosite a salutarci. Abby è arrivato a dicembre e ci ha passato l’inverno. Ha 25 anni e una folta barba nera, indossa una
kameez , la lunga camicia senza collo. «Ho lavorato sei anni come macellaio a Londra – racconta – dove ero arrivato nel 2007. Ho fatto domanda di asilo, me l’hanno respinta perché per il governo britannico posso tornare a casa. Vengo dalla provincia dell’Helmand e là non c’è nulla, solo miseria e violenza. Non ho contatti con i miei genitori, quando li chiamo piangono e divento triste anch’io perché non posso aiutarli. Mi hanno rispedito in Italia a fine 2013. Ho dormito nel silos con la bora e un freddo insopportabile. Ora dormo in una comunità della Caritas e aspetto che la commissione valuti la mia domanda. Dopo? Vorrei restare». Se non troverà nulla, tornerà in nord Europa a lavorare in nero. «La loro condizione è difficile – aggiunge Eva Sicurella, responsabile immigrazione della Caritas triestina – perché arrivano in una città che offre poco, con la barriera linguistica. Finché non arriva la risposta non possono lavorare, solo frequentare corsi. Ma molti sono analfabeti e non sanno l’inglese. Sono spesso depressi, arrivano dopo viaggi terribili». Me ne parla Mohamed, 23enne pakistano del Punjab, al refettorio diocesano. Laurea in comunicazione, arrivato da tre mesi, parla un po’ di italiano e vorrebbe inserirsi. Ma le possibilità che gli sia concessa la protezione non sono molte. «Non posso tornare perché sono membro di un partito di opposizione, mi ucciderebbero. Sono arrivato in aereo in Grecia, poi ho finito i soldi e ho camminato fino all’Ungheria e da lì sono passato in Slovenia e a Gorizia. La maggior parte viaggia a piedi e quando finisce i soldi si ferma finché non trova il denaro per proseguire. I passatori? Sono di tutte le etnie, anche europei». Davanti al Cara di Gradisca d’Isonzo, nel goriziano, trovo Mohamed che soffre per il sovraffollamento della struttura e per le condizioni igienico-sanitarie precarie. Il 12 giugno comincia il processo all’ente gestore, il consorzio Connecting people, e al viceprefetto di Gorizia accusato di aver gonfiato fatture. Mi accompagna sulle rive dell’Isonzo dove gli afghani si ritrovano a cucinare in una golena incolta che chiamano
jungle , la giungla. Qui vive da solo, in un edificio dismesso John, espulso dal Cara per una rissa. Si arrampica su una scala precaria per difendersi dagli animali, si lava quando può a Gorizia, dalla Caritas, che lo aiuta anche per il cibo. «Il centro è invivibile – sbotta Mohamed, 30 enne sposato e padre di due bambini lasciati a Mazar Il Sharif, che ha lavorato in Grecia come cuoco – ad esempio abbiamo il pocket money di 2,5 euro su chiavette inutilizzabili, perché le macchinette non funzionano. Allora veniamo qui con John a mangiare. Aspettiamo tutti la risposta della commissione alla nostra domanda». Anche John, eremita suo malgrado, attende l’esito. Si professa innocente, ovviamente, ha 25 anni e in Afghanistan sognava l’Europa. «Invece qui vivo come una bestia e non dormo mai per il freddo. Vengo da Tora Bora, ma la jungle è peggio. Come potete abbandonare così un essere umano?».