Il lungomare di Trieste e, sullo sfondo, alcune delle aree dismesse del porto - .
La coda dei turisti alle otto del mattino in attesa dei taxi sul lungomare davanti a piazza Unità d’Italia ricorda quella romana di Termini o della Centrale di Milano. Appena sbarcati dal traghetto o dalla nave da crociera, vanno in giro per la città o alla stazione in quella che si prennuncia come una nuova estate da record di visitatori per Trieste, la regione e tutta Italia. Già nel 2023 il flusso turistico a Trieste è cresciuto del 17% con boom dall’Europa dell’est. Ma non bisogna credere alle apparenze, è un turismo povero che arricchisce solo il commercio e i proprietari di case per affitti brevi e che, a conti fatti, impoverisce il territorio. È la punta dell’iceberg delle tante contraddizioni della città , dove dietro lo scenografico set di palazzi storici del centro storico come nei western di Cinecittà spesso c’è solo una facciata. E la realtà celata è diversa e spesso sorprendente. Trieste è sì un avamposto alla frontiera e allo stesso tempo uno specchio in cui l’Italia si può guardare.
«È una città straordinariamente duale – conferma il sociologo Giovanni Carrosio, docente della facoltà di Scienze politiche dell’università triestina ed esperto del territorio – con dinamiche confliggenti sotto vari fronti. Quello demografico perché molto anziana ed è una delle capitali italiane della solitudine, con tante persone prive di reti sociali di supporto. Delle circa 104.000 famiglie che vi abitano, più del 50% ha un solo componente. Significa che 54mila persone vivono sole e molte sono anziane. Allo stesso tempo è attraversata da flussi temporanei di 17 mila studenti universitari e dal mondo della ricerca internazionale che, però, ci vivono qualche anno e difficilmente entrano nel tessuto cittadino. L’inverno demografico richiederebbe politiche per equilibrare la coabitazione tra studenti e anziani. Ma c’è il problema abitativo. Oggi per una giovane coppia o una famiglia con figli trovare un’abitazione in affitto a prezzi abbordabili è quasi impossibile perché quasi tutti i proprietari puntano sugli affitti brevi per AirBnb e ai lavoratori temporanei. Su uno stock di 126 mila abitazioni, 20mila non sono occupate, un problema storico. Senza contare che sono sorte agenzie specializzate nella vendita di una fascia appartamenti in città a prezzi più alti sul mercato tedesco e austriaco».
In altre parole, la strategia di favorire il turismo a Trieste non ha una prospettiva di lungo periodo se non è governata e mette in secondo piano abitabilità e vivibilità, quindi lo sviluppo.
Alcune soluzioni sarebbero a portata di mano della politica con un consumo di suolo pari a zero. Lo spiega il dossier “Buchi Neri”, provocatoriamente prodotto nel 2020 dallo studio dell’architetto Renato Dambrosi. Se tutto il centro nevralgico del Porto vecchio dalla stazione a Barcola va riprogettato, le aree, gli edifici come le scuole, le caserme e i siti abbandonati coprono un’area equivalente di oltre 850mila metri quadrati sottratti all’utilizzo pubblico. E quattro anni dopo come va? «La riprogettazione urbana di aree ed edifici pubblici è un problema comune a molte città italiane – commenta Dambrosi – ed europee che nel futuro grazie ai mutamenti climatici arriveranno ad accogliere il 70% della popolazione che si sposterà da campagne e aree interne. Occorre prevedere anche la creazione di aree verdi da piantumare, mentre gli edifici pubblici oggi chiusi possono rispondere alla domanda crescente di servizi, di abitazioni e di luoghi di socialità. Abbiamo due scadenze, il 2030 e il 2050 per ridurre le emissioni del 50 e del 100%, sarà difficile rispettare gli impegni. Con un gruppo di professionisti stiamo elaborando progetti da presentare alle amministrazioni locali, vedremo poi che cosa succederà» .
Altra causa dell’inverno demografico triestino e italiano è il lavoro povero giovanile. «Trieste è una città da tempo terziarizzata – spiega il segretario regionale della Cgil Michele Piga – e nel commercio e nel turismo si annida il lavoro povero e precario. Se va bene ci sono stipendi da 20mila euro l’anno contro i 35mila medi dell’industria e i 65 mila dell’intermediazione finanziaria. L’emigrazione giovanile è quindi molto forte e spesso se ne vanno persone molto competenti a Milano, Bologna e Padova o all’estero. Questa è una città ricca che, però vive di disuguaglianze forti».
E ancora, contraddizione evidente sono i flussi di persone e di merci. Ovvero chiusura e apertura della città di frontiera. Da anni la ricchezza di Trieste è data per un terzo dalla pubblica amministrazione, per il 10% dalla industria e per un altro 30% dalla intermediazione finanziaria e per il resto dal terziario, che comprende il porto, sorta di repubblica autonoma che in questi anni ha guidato la ripresa della città grazie alla figura unanimemente apprezzata del presidente dell’autorità di sistema portuale Zeno D’Agostino, manager e intellettuale con una visione imprenditoriale di lungo periodo che ha consacrato il vecchio scalo che riforniva e rifornisce ancora ieri l’impero asburgico pe oggi la Mitteleuropa a leader della logistica nel Mediterraneo, capace di resilienza davanti a crisi come quella di Suez unendo tutte le componenti stringendo relazioni internazionali solide, diversificando, ristrutturando le banchine e puntando sull’entroterra. Tanto che quando l’Anac lo dichiarò decaduto dalla carica, tremila tra lavoratori, sindacalisti, imprenditori scesero in piazza Unità per protestare. Ma ora D’Agostino ha terminato il mandato e alla difficoltà di scegliere un successore all’altezza si aggiunge il timore di lottizzazioni.
A questo si contrappone la chiusura verso i flussi migratori di persone dalla rotta balcanica, con un sistema di accoglienza diffusa che resta sotto traccia davanti a una politica che manda l’esercito al confine nonostante la forte richiesta di manodopera.
«Altra contraddizione è quella ambientale – aggiunge Carrosio – perché il Canale di Suez ci porta ricchezza e anche specie aliene all’ecosistema marino come i famigerati granchi blu e il vermocane». Una risorsa attraente di giovani talenti nazionali e internazionali, oltre ad aziende come Illy e Generali, sono le tante cittadelle della ricerca scientifica, dall’oceanografia alla fisica alla matematica. Trieste è la città italiana con il tasso di ricercatori più alto rispetto alla popolazione. Ma oltre al problema delle paghe basse dei ricercatori, non si riesce a fare sistema e a farle diventare protagoniste della vita cittadina e nazionale. Dopo la manifestazione Esof, European Science Forum nel 2020, la città poteva diventare capitale della scienza, stando alla visione lungimirante e giovane di un vecchio professore, il fisico Stefano Fantoni e ospitare una Trieste Valley sulla falsargia della Silicon Valley nei locali del porto vecchio. «Si procede a rilento – spiega Fantoni – perché alle lentezze burocratiche si sommano le resistenze del mondo della ricerca molto geloso. Volevo creare una Summer school scientifica dove ci si confronta liberamente e si elaborano visoni interdisciplinari. Per ora ci lavorano 10 giovani. Dobbiamo puntare su di loro qui come in tutta Italia».
Morena Pinto, 26 anni, giornalista ha lasciato la sua città per laurearsi a Urbino ed è tornata. Come mai? «Quando sono tornata non vedevo prospettive – racconta –, poi abbiamo dato vita a una associazione con una amica e abbiamo vinto un bando europeo per la creazione di orti urbani. Ne abbiamo aperti due curati dai cittadini e sono diventati luoghi di socialità dove teniamo corsi e dibattiti sulla sostenibilità e gli stili di vita. Quello che mi ha convinto a restare è stata la straordinaria partecipazione integenerazionale dai 25 agli 80 anni al progetto e la voglia di riprendersi gli spazi e di curarli insieme». Partecipazione e voglia di comunità che si cela dietro la facciata, ma aspetta i canali giusti per cambiare la vecchia Trieste, avamposto e specchio d’Italia.