mercoledì 3 aprile 2024
Il 28 marzo dopo un lungo iter monsignor Benoni, nato in Romania, ha ottenuto la cittadinanza. «Nessuno è straniero. L'incontro tra diversità e culture differenti significa ricchezza»
Il vescovo Ambarus giura da cittadìno italiano

Il vescovo Ambarus giura da cittadìno italiano - Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

«Io sogno che un giorno arriveremo ad offrire la cittadinanza italiana e a non aspettare che ce lo chiedano. Perché è un modo di dire “siamo contenti che tu sia qui”». A parlare è chi questo tema la conosce bene. Monsignor Benoni Ambarus, per tutti “don Ben”, vescovo ausiliare di Roma per l’Ambito della diaconia della carità, nato in Romania, è il primo vescovo straniero in Italia per la pastorale italiana e primo vescovo straniero diventato italiano. Lo scorso 28 marzo ha, infatti, giurato da cittadino italiano nelle mani del sindaco di Roma, Roberto Gualtieri. Nel 1996 a 22 anni venne a studiare a Roma come seminarista. «Dovevo restare solo un anno». Ma poi è rimasto. Parroco, direttore della Caritas diocesana, nel 2021 è stato ordinato vescovo.

Che vuol dire per lei il riconoscimento della cittadinanza italiana?

Durante una Messa nel 2014, nell’omelia usai l’espressione “noi italiani”. E mi bloccai, perché per la prima volta parlavo da italiano. Chiesi scusa, come se non avessi il diritto di usare quel “noi”. E da lì per me è partita una lunga riflessione perché sentivo che uno straniero non aveva tutti i diritti e sembrava che rubasse qualcosa. Ma ho lasciato perdere. Così non ho chiesto la cittadinanza fino al 2019, ma poi me l’hanno respinta tre volte.
Per quale motivo?
Perché la documentazione era incompleta. La mia laurea alla Gregoriana non aveva l’equipollenza come titolo. Ho rifatto la domanda nello scorso luglio perché in Italia uno non può essere vescovo se non ha la cittadinanza. Ma per avere il decreto di equipollenza della laurea ho dovuto aspettare dal ministero dell’Università 180 giorni.
Cosa ha voluto dire ottenere la cittadinanza?
Si chiude un percorso storico e personale. Fino al 2007 quando mi sono incardinato, non ascoltavo musica italiana, non leggevo storia italiana, tanto dovevo tornare in Romania. Dopo ho dovuto recuperare tutto, dalla letteratura alla storia. Oggi è mettere nero su bianco una cosa che uno già vive. Ma non è così semplice la parabola. Un giorno scriverò un libro.
Quanto le resta ancora della Romania?
Come dico sempre ai ragazzi di seconda generazione, sono orgogliosamente appartenente a due culture. Faccio i sogni in due lingue diverse. Alcune preghiere le recito ancora in rumeno. Ma il travaso verso l’italiano c’è.
Come si rapporta coi ragazzi che invece non riescono ad avere il riconoscimento a causa delle attuali norme restrittive?
Ogni volta che incontro questi “nuovi italiani”, li guardo con grande tenerezza e ammirazione. Sono tanto arrabbiati perché li guardano come stranieri. Non conoscono neanche la lingua dei genitori, ma ogni anno vivono l’umiliazione di dover andare in Questura per il permesso di soggiorno. E questo si concretizza nella rabbia che hanno dentro, non solo quella adolescenziale. Ma allo stesso tempo li spingo: “capisco questa difficoltà ma vai oltre, sei avvantaggiato rispetto ai tuoi coetanei, prendi questo come una ricchezza enorme”.
E chi continua a mettere ostacoli in nome dell’italianità?
Mi dà un grande senso di tristezza. Mi sembrano persone “provinciali” che non sanno che cosa è il mondo. Sono loro gli stranieri rispetto ai grandi cambiamenti, alla complessità e alla bellezza del mondo.
Quale dovrebbe essere la strada per arrivare davvero al riconoscimento dei “nuovi italiani”?
Per un credente l’unico popolo di Dio è formato dai popoli del Mondo. Per noi non c’è distinzione di razza o di altro. Questa è la ricchezza più grande e quella che viviamo sacramentalmente e liturgicamente. Dovremmo semplicemente recuperare questa verità teologica e spirituale e avremmo superato qualsiasi distinzione.
E i non credenti?
Per un pensiero sanamente laico c’è da considerare che abbiamo costruito per anni la globalizzazione pensando che fosse solo economica, e oggi ci stiamo rendendo conto che è innanzitutto umana. Non possiamo dire libero scambio delle merci e non delle persone. La ricchezza vera e più grande è quella che viene dall’incontro tra culture e diversità. È la vera sfida del futuro dell’umanità, altrimenti non si salva nessuno.
Nei suoi vari incarichi non si è mai sentito dire “che ci fai qua, sei straniero”?
Ciascuno di noi ha delle piccole ferite che si porta dentro. Anche io ho una buona collezione di piccoli e grandi atti di discriminazione che però ho superato e rimangono nella misericordia di Dio. Ma sono consapevole di aver avuto il privilegio di un percorso migratorio avvantaggiato, riconosciuto. Non ho dovuto vivere le stesse umiliazioni di altri. Ho raccolto tante lacrime.
Momenti in cui invece si è sentito meglio a essere straniero?
Essere uno straniero lo considero un privilegio. So cosa significano le difficoltà, la fame, le angherie. Il mio percorso migratorio, la mia infanzia in un’epoca di dittatura, di persecuzioni politiche, mi hanno marchiato dentro, sono state una chiave formidabile di ingresso nell’incontro con le persone che si sono fidate di me.
Ora essere italiano cambierà qualcosa?
Non è che ora mi sento più italiano o finalmente sullo stesso livello degli altri. Ma è un bene avere questo riconoscimento.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: