Il grande salto realizzato dall’umanità negli ultimi decenni - nel corso dei quali (letteralmente!) miliardi di persone hanno migliorato le loro condizioni di vita materiale – lascia ora in eredità una enorme quantità questioni che stanno scuotendo il mondo intero. Una complessità mai vista nella quale si devono gestire, allo stesso tempo, la stabilità economica e sociale dei singoli Paesi, nuove relazioni internazionali, grandi migrazioni, la creazione di condizioni per una vera sostenibilità ambientale, le tensioni relative all’accesso alle materie prime e alla difesa dei commerci, l’accelerazione tecnologica, l’aumento delle disuguaglianze, il rispetto dei diritti umani. Il problema è che, di fronte a tutto questo, non ci sono né le istituzioni (basti pensare alla debolezza dell’Onu) né le culture politiche adeguate. Il paradosso è che se è vero che il mondo non è mai stato così ricco, d’altro canto non è mai stato così esplosivo. È questa la drammaticità del periodo storico che stiamo attraversando: il rischio è che, per sbrogliare la matassa, prevalga la logica più arcaica e semplice, quella bellica dell’amico-nemico, scaricando così nella follia della guerra le fortissime tensioni oggi esistenti.
Nella convinzione, del tutto infondata, che il conflitto possa sciogliere i nodi creati da decenni di crescita accelerata. È questa la ragione che spiega perché la “Terza guerra mondiale a pezzi” di cui papa Francesco parla da anni può trasformarsi in un grande conflitto internazionale. Tutte le forze civili, morali, economiche e politiche devono attivarsi per scongiurare un tale esito.
“La pace si fa in due”, si sente ripetere. E si può senz’altro essere d’accordo sul fatto che, al punto in cui siamo, una generica debolezza non aiuta. La legittima difesa è da sempre riconosciuta come principio morale. Ma questa prima affermazione va completata con una seconda, troppo spesso taciuta: la pace va attivamente ricercata. E quando, come in questo frangente, si vogliono evitare le estreme conseguenze dello scontro, della contrapposizione, del conflitto, è necessario che una delle due parti provi a rompere lo schema.
Cosa vuol dire questa affermazione, in questo preciso momento storico? Almeno tre cose.
In primo luogo, non bisogna smettere di denunciare con chiarezza tutti gli abusi del diritto internazionale, che pure costituisce l’unico linguaggio comune a cui bisogna cercare di fare riferimento. Di fronte alla sua violazione esplicita, la denuncia deve essere fatta senza indugi. E quando è necessario va opposta una resistenza esplicita.
Ma questo primo elemento ha bisogno di un secondo aspetto. La storia, l’esperienza ci insegnano che, quando c’è un conflitto, torti e ragioni non stanno mai completamente da una parte sola. Attenzione, non si sta dicendo che siano equamente distribuiti. Ma chi cerca la pace sa che per interrompere l’automatismo del conflitto è sempre necessario mettere sul piatto anche il riconoscimento delle ragioni - pur se parziali e contraddittorie - dell’altro. Un movimento difficile, rischioso, che non assicura il lieto fine. Ma pur sempre necessario.
Infine, la pace si cerca lavorando per immaginare creativamente una via d’uscita, uno scarto di lato capace di sbloccare la situazione. È solo la capacità di cambiare la dinamica imposta da chi mette inizio al conflitto che può portare la pace.
Applicati alla crisi Ucraina, questi tre passaggi possono essere così tradotti: l’aggressione russa va condannata perché contro il diritto internazionale.
Ma, affermato ciò, si dovrà almeno riconoscere la complessità storica e culturale che caratterizza quelle regioni. Da qui allora, si potrà lavorare per immaginare - tanto per il Donbass quanto per la Crimea - soluzioni terze che, come in tanti altri momenti storici, la diplomazia può inventare. Salvaguardando da una parte il legittimo desiderio degli ucraini di conservare la propria libertà, e dall’altra creando una via d’uscita per il despota russo. E lo stesso approccio può essere utilizzato per quel dramma ormai secolare che sconvolge la Palestina. Dove l’unico punto di riferimento non possono che essere gli accordi di Camp David (non a caso cancellati dagli attacchi degli estremisti dell’una e dell’altra parte).
In tutto questo l’Occidente deve decidere che partita giocare. Se difendere i propri interessi con le armi, immaginando che ci sarà una vittoria finale contro il resto del mondo. Oppure se mettere in campo la profondità della propria matrice culturale: dove si riconosce la necessità di una continua mediazione tra l’interesse di parte e l’interesse generale. Consapevole che la giustizia umana si dà nello spazio aperto tra il diritto calcolante e la giustizia eccedente. Siamo davanti a una grande prova storica che va affrontata con una adeguata profondità spirituale.